Madagascar, un tour fai-da-te / 2)Lo squalo nero e la foto mai scattata

di MANUELA CASSARA' e GIANNI VIVIANI*


Volendo proseguire in macchina per il Sud, conveniva farlo da Antananarivo, dopo l’ennesima notte ristoratrice al Royal Palissandre.  

Prima tappa, Antisirabè, terza città più popolosa del Paese, che significa “là dove c’è molto sale”,  e deve parte della sua fama alle Terme -  che ci avevano caldamente sconsigliato, perché non proprio asettiche. Volendo ci si poteva arrivare in treno, fosse solo per apprezzarne la stazione, un elegante edificio, ricordo di passate ambizioni. L’idea non ci aveva tentato. Forse un peccato. Sicuramente la città offriva di più del nostro toccata e fuga: a 1500 metri d’altitudine, circondata da laghi vulcanici, con molti altri pregevoli edifici coloniali ben tenuti. Tutta colpa del mio planning che aveva puntato sui soggiorni di mare, piuttosto che sulla conoscenza del territorio. Ma all’epoca lavoravamo duro e volevamo riposarci. Ricordo però la fonderia: un antro oscuro popolato da uomini ossuti e  ossequiosi,  uomini del colore del metallo forgiato, segnati dalla fatica. Avevamo acquistato solo un paio di minuscole pentoline di peltro, perfette repliche in miniatura di quelle da cucina, che ancora uso per il sale e il pepe. Notte all’Arotel, uno squallido motel con pretese architettoniche; altra scelta che mi lascia perplessa, ma forse mancavano alternative.

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(Antisirabè)

Il giorno dopo c’ eravamo diretti ad Ambositra , il cui nome è simpaticamente evocativo: ”là dove ci sono molti castrati”. C’è chi dice che i castrati fossero umani, chi dei buoi. Spero nella seconda ipotesi.

Per coprire quella novantina di chilometri da Antisirabè, il navigatore dava un tempo previsto di due ore. La solita media di 50 km.

Raddoppiatela, se viaggiate con un fotografo. Complici le attrazioni lungo la strada: mercati improvvisati, ammiccanti venditrici di cibarie e souvenir, polverosi villaggi sperduti, dove venivamo circondati da una miriade di sparuti ragazzini, eccitati dalla nostra presenza, grati per le caramelle che si contendevano, mentre cercavamo, inutilmente, di distribuirle equamente.

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(La fonderia di Antisirabè)

Tutta la zona era famosa per l’artigianato Zafimaniry. E noi c’eravamo fatti prendere la mano. Bastava un’insegna, un baracchino, il richiamo ammiccante di una donna sul ciglio della strada, e inchiodavamo sui freni. L’offerta era tanta, era varia, era ben fatta: parei Batik, oggetti in carta Antiamoro, souvenir in bambù, in legno, cappelli e borse in rafia e Sisal. Se, come me, non sapete tornare a casa senza un ricordino, in Madagascar sarà impossibile resistere. Io non ci avevo nemmeno provato. In uno dei polverosi atelier incontrati lungo la strada avevo fatto l’ennesimo acquisto: due figurine sottili in ebano, un lui e una lei stilizzati, alti una quarantina di cm, la base non più larga di tre. Eleganti, totemiche. Mi ricordavano le sculture di Giacometti. Ci hanno seguito in tre traslochi e quando le guardo rivedo la faccia sorpresa e felice di quell’anziano omino, forse non ci sarà nemmeno più, che me le aveva vendute. Il mio entusiasmo l’aveva sorpreso.

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(Dintorni di Ambositra)

Altri 150 chilometri per Fianarantsoa, detta anche Fianar, ovvero “là dove si apprende il bene”. Il che prometteva meglio.  Invece, per quanto fondata nel 1830 dalla Regina Ranavalona, con l’intenzione di farne una seconda capitale, me la ricordo sottotono. Era soprattutto una tappa di avvicinamento alla Riserva dell’Isalo. Perciò sul soggiorno e men che mai sull’hotel Soafia non avevo annotato niente di memorabile.        


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(Le campagne di Fianarantsoa)

Il parco di Isalo si estende per oltre 81.000 ettari di savana. Descritto come un grande canyon di cui non si vedono le sponde, è una vasta prateria arsa dal sole con orizzonti così aperti che diventa difficile coglierli senza il grandangolo. Abitato dall’etnia Bara, agli avventurosi trekkers si consiglia di ingraziarsi gli antenati dei suddetti, aggiungendo un sasso ai rituali cumuli di pietra incontrati lungo il cammino. Avendoci il fisico, suggerisco un percorso di più giorni, per avventurarsi tra cascate e pozze di acqua cristallina, Noi, assieme ad una trentina di altri turisti scesi da un bus, ci eravamo limitati a celebrare il tramonto scattando la foto rituale attraverso La Fenêtre de l’Isalo, una fessura triangolare nella roccia, che la natura aveva piazzato nel posto giusto.

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(La Fenêtre de l’Isalo)

L’albergo più bello e più caro, era Le Relais de la Reine.  Ce l’ eravamo concessi solo per la pregevole cena a bordo piscina, mentre le nostre stanche membra avevano trovato riposo nel più modico Motel de l’Isalo, che comunque era decente.

Eravamo  ormai in dirittura d’arrivo. Prossima meta il porto di Tulear, che ovviamente si chiama anche Toliara, a soli 200 km a sud-ovest, raggiunti  previo stop al cimitero di Andranovory. Nella cultura malgascia, al momento del trapasso, fatto il dovuto sacrificio rituale di uno zebù, l’anima diventa di default immortale. Dato che una tomba è per sempre, sono più durature delle povere baracche di legno e lamiera che, in fondo, servono solo per una vita. La cerimonia, per quello che ho letto, ma forse il tipo esagerava, metterebbe a dura prova anche i più sfegatati amanti di The Walking Dead. Il cimiterino era carino e fotogenico, non molto diverso da altri che avevamo incrociato, con i muri perimetrali imbiancati e affrescati, come le statue colorate dei cari estinti. Tutti con il cappello in testa. Ci sarà un perché, visto che per strada nessuno lo indossa.  Non voglio fare polemica femminista, ma ho visto solo effigi maschili.

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(Un cimitero)

Tulear, comunque non era un arrivo ma un punto di partenza per Anakao.

Due cose ci portavano ad Anakao; una era andare a salutare il figlio di un’amica, un ragazzo che aveva scelto di farsi un anno sabbatico presso un tipo che aveva aperto una non so quale attività  in quel luogo estremo. La seconda, era chiudere in bellezza con un ulteriore soggiorno fronte mare. Avevamo trovato un resort che aveva l’aria di essere trés sempà, inaugurato da francese un po’ pirata, Le Prince Anakaò.  Tra parentesi, ricordarsi di mettere sempre l’accento sull’ultima “o”: Isalò, Anakaò, come in Francia.

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(Riserva dell'Isalo)

Ora il figlio della nostra amica, nel frattempo, aveva pensato bene di andarsene chissà dove, senza lasciare tracce. Visto lo sbattimento per arrivarci e l’isolamento di quel luogo nel nulla, chi lo può giudicare? Noi, dopo una birretta gelata da Chez Alain, eravamo saliti su un traballante carretto condotto da un paio di cornuti zebù che, dopo una placida passeggiata sulla putrida melma del porto di Ifaty, ci avevano portato ad una fatiscente barchetta, dove non eravamo gli unici passeggeri. Arrancando e sputacchiando fetidi fumi dal motore, miracolosamente affidabile, dopo quattro ore in un mare per fortuna piatto, eravamo sbarcati in una spiaggetta desolata, accolti da un cospicuo numero di bimbetti indigeni, tra cui un’irsuta creatura di non più di sei anni, una bimbetta ricoperta di stracci, che ricordava la piccola aborigena del film Mad Max  e che ci aveva guardato  perplessa. Caricati gli zaini su un mega trattore, fatti altri chilometri tra dune e sterpaglie desolate, le voilà Le Prince. Ah il comfort di un bungalow ben attrezzato, che mai avremmo sperato di raggiungere dopo le ore in barca, ah la delizia di un cocktail gelato, ah la goduria dei gamberoni grigliati, ah la bellezza di  quel mare cristallino, ah la promessa di cinque notti in pace, senza ulteriori  sbatacchiamenti e trasferimenti. Per quanto la spiaggia più grande, frequentata dai locali, fosse un terreno minato di rifiuti innominabili, quella davanti al Prince era immacolata e tanto ci bastava. Rinfrancati da un dolce far niente, le giornate procedevano monotone, scandite da bagni e pennichelle.

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(Traghettatori a Ifaty)


Dopo quattro giorni passati a oziare sugli asciugamani, noi e la Canon rimasta inoperosa, l’ultimo giorno il beneamato, prima di uscire dal bungalow, mi aveva chiesto “Che dici, me la porto, oggi ?” “Ma dai - avevo risposto - perché? è impanata come una cotoletta. In spiaggia non hai mai fatto uno scatto. Lasciala”.

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(Donna con pesce a Anako)

Ce ne stavamo lì belli sdraiati, unti e annoiati, ed ecco che, dopo un paio di orette, costeggiando la riva a pochi metri, ci  era passata davanti una piroga; uno di quei gusci ricavati da un tronco d’albero, con a poppa un pescatore color ebano… in tinta con l’altro essere pericolosamente in bilico di traverso sulla barchetta: un enorme squalo nero  di almeno quattro metri. Una foto da copertina del National Geographic. Irripetibile. Mai scattata.

Credo che il beneamato ancora mi maledica.

 

*MANUELA CASSARA’  (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità  anche sul resto)

*GIANNI VIVIANI (Milano 1948, fotografo, nato e cresciuto professionalmente con le testate del Gruppo Condè Nast ha documentato con i suoi still life i prodotti di molte griffe del Made in Italy. Negli ultimi anni ha curato l’immagine per il marchio Fiorucci. Ha anche lavorato, come ritrattista, per l’Europeo, Vanity Fair e il Venerdì di Repubblica. La sua passione più recente sono le foto di viaggio)




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