Lunigiana, statue-stele e vino buono

di MASSIMO RAZZI* 

Terra di confine (tra Liguria, Toscana e Emilia), terra di tribù dure e combattive (i Liguri Apuani furono gli unici che non si arresero mai ai romani), ma anche terra verdissima, ricca d’acqua, di misteri e di strane antichissime pietre. La Lunigiana occupa praticamente tutto il bacino del fiume Magra (70 chilometri tra i Monti Borgognone e Tavola fino ad Ameglia sulla costa tirrenica), equamente diviso tra le province di La Spezia e Massa Carrara. Mare, monti, verdi boscaglie di castagni ricche di funghi; cocuzzoli ciascuno col suo castello quasi sempre appartenente dalla famiglia Malaspina (ramo Secco o ramo Fiorito) che aveva l’usanza, per allora “democratica”, di dividere i feudi tra tutti i figli (e non solo al primogenito come si usava) in modo che ciascuno potesse costruire il suo maniero e allargare il potere e la forza economica della famiglia.

Vale una visita, questa terra benedetta, anche per andare a vedere e conoscere le sue “Statue-stele”, uniche in Italia, molto ben conservate nel piccolo museo appositamente allestito nel castello di Piagnaro a Pontremoli, dedicato allo studioso Augusto Cesare Ambrosi.

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(Statue-stele       foto di Massimo Razzi)

Ti guardano attonite e quasi beffarde queste strane sculture ricavate da blocchi di pietra arenaria da gente dell’età del rame e del ferro tra cinque e tremila anni fa. Rappresentano uomini, donne e bambini e vengono classificate in tre gruppi (A, B e C) che rappresentano altrettanti livelli di evoluzione tecnica e creativa. In tutta la valle del Magra (e solo lì) ne sono state trovate 82: la prima nel 1857 a Zignago sui monti tra il Vara e il Magra; l’ultima (una testa) nel 2012 a Monti di Licciana. Di solito erano sepolte sotto un paio di metri di terriccio e saltavano fuori in occasione di scavi e costruzioni, ma almeno una volta, nel 1905 a Pontevecchio di Fivizzano, ne trovarono ben nove conficcate in un prato a due metri di profondità e allineate secondo chissà quale rituale. Alcune, forse per salvarle dalla distruzione voluta prima dai romani e, poi, dalla Chiesa cattolica, vennero inglobate nei muri di case o edifici pubblici o nascoste tra recinti e stalle.

Ti guardano e, soprattutto le prime (le più antiche e ingenuamente semplici) ti ricordano R2-D2 (o C1-P8 nella versione italiana), il buffo robottino di Guerre Stellari. La pietra, alta un po’ meno di un metro, è spessa pochi centimetri, la testa è attaccata al corpo, separata solo da una scanalatura. Del volto si colgono gli occhi, il naso e due cosine laterali che dovrebbero essere le orecchie. Le braccia sono incrociate davanti. I maschi hanno un pugnale molto fallico inglobato nel ventre, le femmine hanno due piccoli seni appuntiti e, forse, una lieve prominenza tondeggiante (segno di maternità?) a livello della pancia. I bambini sono più piccoli e asessuati. Nei due gruppi successivi le forme si definiscono meglio: la testa si stacca dal corpo e prende una buffa forma a “cappello di carabiniere” che, per restare al cinema, ricorda un po’ “ET”, i seni si arrotondano, si aggiungono armi e ornamenti e le statue diventano tridimensionali.

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(Il torrente Taverone     foto di Massimo Razzi)

Ma cosa rappresentavano queste misteriose “Statue-stele”? Molti studiosi ci si sono scervellati, ma nessuno, finora, ha trovato una risposta. Potrebbero aver avuto un significato religioso legato a riti misteriosi di cui non sappiamo nulla. Forse rappresentavano antenati e avevano lo scopo di proteggere la comunità, forse avevano un ruolo in riti funebri (alcune sono state trovate sepolte in quelle che sembrano tombe) o, ancora, potrebbero essere state legate alla toponomastica,  a segnare strade, valichi, confini. O, forse, tutte queste cose insieme. Ma se di riti si tratta, questi piccoli amici di pietra hanno qualcosa di simpatico, di amichevole, addirittura di consolatorio se non di comico. E i lunigiani forse li vivevano e li difendevano come fossero elfi del bosco, giocherelloni, dispettosi e fermati per sempre nelle pietre di arenaria.

Proprio a Licciana Nardi, vicino a dove venne trovata l’ultima “statua-stele”, andate a cercare (dico “a cercare” perché non è ben segnalato) il podere di Castel del Piano dove Sabina Ruffardi e Andrea Ghigliazza, abbandonata la vita e il lavoro milanese, da una ventina d’anni si sono dedicati a tenere e mantenere un piccolo bellissimo maniero dei Malaspina, a produrre ottimo vino e a ospitare in un grande appartamento villeggianti in cerca di pace e cose buone da bere e da mangiare.

Sabina racconta che quando, a inizio millennio, videro il rudere, oggi molto ben restaurato, se ne innamorarono subito. La piccola fortezza sta su un poggio proprio sopra all’alveo del torrente Taverone che scorre tra laghetti e cascatelle, ed è raggiungibile (e godibile) con un ripido sentiero trasformato in un “percorso botanico” con i cartelli che ti spiegano la flora locale. E nel praticello da cui parte il sentiero, il fenomeno di una gigantesca quercia secolare abbattuta da un tornado nel 2015: è “sdraiata” tra il bosco e il muro che ha abbattuto cadendo con le radici quasi tutte in aria. Alcune, però, sono rimaste infisse nella terra e hanno continuato a darle vita: “Aspettammo qualche tempo a segarla per portarla via – ricorda Sabina – ma ci accorgemmo che era ancora viva e che cominciava a dare getti. Così decidemmo di lasciarla stare e vedere come andava”. Adesso la quercia è lì: atterrata ma ancora rigogliosa con un ramo frondoso che si leva dal tronco abbattuto come a salutare.

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(La quercia del Taverone        foto di Massimo Razzi)  

Resti a bocca aperta davanti alla quercia e anche davanti ai buoni vini di Andrea e Sabina. La vigna è lì vicino, lungo la stradina che porta al castello: tutta roba rigorosamente bio (a dimostrazione che avendo cura dell’ambiente si possono fare vini buoni, variegati e ben vinificati). I vitigni sono quelli autoctoni, recuperati, studiati e salvati da gente come Sabina e Andrea e dai ricercatori dell’Università di Pisa. Portano nomi come: vermentino nero, pollera, marinello, groppello, durella, albarola, uslina, lugliesa, bracciola, barsaglina, caloria, luagda, pinzamosca, verdella, varano bianco e chissà che storie dietro a ciascuno. I vini si chiamano: Durlindana, Melampo, Pian Piano, Groppolungo, Sassomano, Pepe Nero, Mattagna, Claré e ciascuno ha una storia e un perché dal punto di vista della sperimentazione e della vinificazione. C’è anche un Luna Lies col tappo da bottiglietta, un vinello frizzante da aperitivo che si conserva grazie ai suoi lieviti naturali.

Sabina e Andrea spiegano le loro scelte, la lunga “corte” fatta alla precedente “castellana”: “Era una donna molto simpatica e di grande cultura e non voleva vendere a chiunque. Alla fine ci ha praticamente ‘scelti’. Ci sono voluti due anni di duro lavoro. Le sovrintendenze ti pongono un sacco di problemi perché i restauri devono essere, giustamente, conservativi e i materiali non possono essere scelti a caso. Ma nessuno, o quasi, ti dà qualche aiuto economico. Adesso, dopo quindici anni, siamo tranquilli, ma non si smette mai di faticare e trovare mano d’opera in agricoltura, da queste parti, è molto difficile. Dopo il Covid abbiamo deciso di chiudere il ristorante. Metteremo la cucina a disposizione dei nostri ospiti ma, almeno, noi potremo dedicarci alla vigna e al vino”.

Bella storia e bella gente. E prima di andartene ti viene voglia di andare a ridare un’occhiata alla vecchia quercia abbattuta che non vuole smettere di vivere. E’ come se avesse qualcosa da insegnarci.


*MASSIMO RAZZI (Sono un giornalista genovese - l’Unità, Corriere Mercantile, Il Lavoro, La Repubblica, Kataweb - trapiantato a Roma. Dal 1999 mi sono molto divertito a creare insieme a tanti altri colleghi Repubblica.it. Credo ci abbiano lasciato fare quello che volevamo anche perché nessuno ci capiva granché. E questo, nell’unica vita che hai, vi assicuro che non è poco)


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