Lo psychotópo, ovvero scendere a piedi dal Castello di Arechi Un fotoracconto
di GIGI SPINA*
Un luogo dell’anima, uno psychotópo, è un marchingegno grazie al quale, in uno spazio anche ristretto, il tempo si dilata a piacere, verso il passato e verso il futuro: chi presidia quel luogo può ricordare, prefigurare, intrecciare vita e memorie in modi tendenzialmente liberi.
A Salerno, su per la strada che porta al Castello di Arechi, dopo averlo superato, si arriva a un posto che mi parve la prima volta magico: un gazebo, una chiesa, un bar-ristorante con un pergolato e un panorama riposante. Ci si poteva sedere, con un giornale o un libro, e cominciare a visitare il tempo. Ci si poteva fare del male, e anche molto, o risalire, dipendeva dalle domeniche.
A fine agosto dello scorso anno ci sono tornato, accompagnato in macchina da tre amici (uno già nominato su foglieviaggi). Mi hanno salutato e sono tornati giù in città. Io ho dato inizio alla discesa celebrativa, a piedi, solo cinque chilometri. Eccoci alla Croce, lo svincolo per Cava dei Tirreni: un trivio, come quello in cui Edipo incontro Laio, forse…
Non sono rimasto deluso, sapevo che non avrei trovato il luogo di un tempo, ma quello che ho trovato è stato sufficiente. C’è ancora, e basta così .
La Catabasi è cominciata a passo sostenuto; mi sono reso conto che era la prima volta che scendevo a piedi dal luogo dell’anima.
La discesa a piedi aiuta a guardarsi intorno: piccole tracce di costruzioni forse mai finite o distrutte dal tempo, nuovi panorami sempre più aperti e marini.
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C’è
anche uno stradario dello psychotópo, o almeno delle tappe della via dulcis.
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A un
certo punto, mi sembra anche di riconoscere un ibrido, un ircocervo dell’anima:
un lettino dello psicanalista fatto per imprigionare sogni e ricordi.
Anche perché, come impone il cartello, i ricordi non si possono scaricare abusivamente, non possono inquinare le vite degli altri: bisogna gestirli in proprio, ecologicamente, con differenziazione temporale.
Si sono già consumati oltre tre chilometri: un sorso d’acqua ogni tanto, animali nessuno, qualche macchina in entrambi i sensi, sole sfolgorante da cui protegge un cappellino alla Vasco. Ed ecco il Castello.
Guardo le vestigia di un potere antico, conficcate nella montagna. Si fanno ancora notare, anche se chiedono ai posteri un po’ di cura in più.
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Si comincia a vedere la città, con l’autostrada che esce dal tunnel. Comincia il tempo delle metafore. Perché, con un ultimo sguardo al castello,
ripenso all’esperienza e al libro di Julio Cortázar e Carol Dunlop, Gli autonauti della cosmostrada: un viaggio sull’autostrada Parigi-Marsiglia dilatato nel tempo. Solo questa dilatazione consente di vedere le tracce umane oscurate dalla velocità tecnologica.
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Ma torniamo alle metafore: scendere in autobus mi avrebbe costretto a fermate imposte, quelle dei ricordi me le gestisco io.
Certo, ci sono ricordi sdrucciolevoli, che potrebbero fare sbandare.
Tutto sta a saperne regolare la velocità di impatto con gli strumenti giusti, per evitare di scontrarsi con ricordi ingombranti; e comunque conviene sempre dare la precedenza alla vita che si sta vivendo, magari predisponendola a un piacevole ricordo.
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Quanto a me, alla fine della catabasi, ho provato a misurare la velocità dei miei ricordi. Tutto sotto controllo, eppure ero a Salerno …
Dimenticavo:
animali nessuno. Nessun cavallo, peccato, solo un cane, addormentato, che non si
è per nulla scomodato al mio passaggio.
*GIGI SPINA (Salerno, 1946, è stato professore di Filologia Classica alla università Federico II di Napoli. Pratica jazz e tennis. Gli piace pensare e scrivere, mescolando passato e presente)
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