L'Italia, com'era 10) Palermo e gli abbanniatori erranti

di ENZO D'ANTONA*

(accompagnamento musicale di Nicolò Renna)

Nei quartieri popolari di Palermo ogni mattina le donne cantano e gli uomini gridano. Ma niente paura. Queste urla maschili ancora immancabili nelle strade siciliane sono semplicemente quelle dei venditori ambulanti, che per essere doc devono appunto abbanniare o vanniare vantando la qualità della propria merce. Su di loro ci sarebbe tutta un’epopea da raccontare e dovremmo partire da lontano, forse da quando i cartaginesi di Asdrubale attraversarono con gli elefanti il fiume Oreto per entrare nel cuore della città – Panormus, la chiamavano i Greci - qualche secolo prima di Cristo.




Ma se proprio dobbiamo scegliere una data d’inizio di questa particolare categoria professionale preferiamo l’anno 827, cioè più di mille prima che i venditori ambulanti di Palermo venissero finalmente fotografati dai fratelli Alinari e diventassero così ufficialmente e senza ombra di dubbio uno degli elementi identitari della capitale siciliana.

Nell’anno 827 sbarcano gli arabi. Il viaggio non è stato lungo. Sono partiti infatti dalla Tunisia, proprio come avevano fatto i cartaginesi. Ma questa volta l’incontro delle due culture è un matrimonio tra due mondi opposti. La città è bizantina da tre secoli. Gli arabi sono portatori della cultura tecnico-scientifica più avanzata dell’epoca, hanno ingegneri idraulici e geografi, sono abili agricoltori, sanno già che la terra è rotonda, hanno appena scoperto lo zero (merito del matematico Muhammad Ibn Musa al Khwarizmi) e hanno voglia di conquistare tutta l’Isola. Palermo – o Balarm, così la chiamano gli emiri - come sempre si adegua. Nel giro di qualche decennio diventa la più grande capitale araba del Mediterraneo, ospita dentro le sue mura ben 300 moschee. E parla arabo.

Dev’essere stato in quel momento che i venditori ambulanti hanno messo a punto i fondamentali dell’abbanniata, cioè della poderosa cantilena con cui ciascuno offre la propria merce. Una abbanniata trasmessa per cultura orale, in cui solo qualche parola di siciliano moderno – ma non contemporaneo – si mescola oggi al messaggio originale arabo. Ovviamente siamo di fronte a una divaricazione assoluta tra forma e contenuto. Tra le parole incomprensibili pronunciate (o meglio, cantate) e la merce in vendita. Non è questa una forma di pubblicità subliminale? E anche sublime a dire il vero. Comunque funziona, anche se ormai né il venditore né l’acquirente sanno che cosa significhi quella cantilena, del resto ascoltabile all’infinito anche nei mercati storici che in Sicilia sono ancora a struttura araba (banconi come proiezione esterna di un dammuso), e si chiamano a volte allo stesso modo. La via principale della casbah di Tunisi, tanto per fare un esempio, è Suk-el-attarin (traduzione: via dei droghieri) e infatti a Palermo una famosa via commerciale si chiama via Lattarini. Ma non è solo per il fatto della cassata (quas’at), torta a base di ricotta e marzapane, che quel mondo arabo è inciso nel Dna della Sicilia. La verità è che proprio la lingua araba è ben viva in molte cose siciliane, a cominciare dalla toponomastica per finire appunto ai dolci e alle abbanniate.

BGA-F-012070-0000JPG

(Un acquaiolo palermitano      Giacomo Brogi                 1900 ca.)


Tralasciamo le alterne fortune del commercio ambulante nella Palermo normanna (le 300 moschee trasformate in chiese cristiane), sveva, angioina, spagnola, aragonese, austriaca (solo 40 anni), borbonica o anglo-borbonica, con l’ammiraglio Nelson nominato duca di Bronte e con Malta che poi rimarrà inglese fino al 1964 al tempo di Domenico “Dom” Mintoff.

Facciamo quindi un salto di qualche secolo e arriviamo alla Belle Époque e alle prime foto Alinari di venditori ambulanti forniti di ceste, panieri, tavole di legno e sacchi ma a volte anche di carri da tirare a mano e magari carretti siciliani decorati con le scene dell’opera dei Pupi. Gli ambulanti vendono di tutto. Messi tutti assieme sono la versione palermitana dei londinesi magazzini Harrods, i cui slogan erano “dallo spillo all’elefante” e “tutto per tutti ovunque”. C’è il venditore di acqua fresca che nella versione più sofisticata vende acqua e zammù, cioè acqua con l’anice. Zammù deriva da sambuco, pianta portata in Sicilia dagli arabi. I maestri acquaioli, che poi si accaseranno nei chioschetti, insegnano che prima si riempie il bicchiere d’acqua fresca e solo dopo si versano in superficie due o tre gocce di zammù. Non si mescola: così, bevendo, il profumo dell’anice è più persistente. 

Ci sono anche i venditori di mazzetti di gelsomini e di pomelie, che profumano ancora oggi le abitazioni dei palermitani. E quelli che vendono attrezzi di rame per la cucina, magari in cambio di capelli femminili che poi serviranno per realizzare parrucche. Poi arrotini, venditori di tessuti, Ma il grosso dell’esercito è nel settore generi alimentari. Già di buon mattino le strade sono percorse da ragazzini che guidano una capra o una pecora. Sono i caprai, che invece di abbanniare suonano un campanaccio, e che mungono il latte fresco a domicilio. Mentre la giornata avanza cominciano a fare capolino i venditori di pane, di frutta, di pesce, di ortaggi e di verdure selvatiche, come per esempio il finocchietto che serve per fare la pasta con le sarde. E qui l’elenco sarebbe infinito. Sale, liquirizia di fiume, sorbe, azzeruoli... Ma non possiamo dimenticare nemmeno altri venditori di cibi di strada, dallo sfincionaro al panellaro al quarumaro, al venditore di pane con la meùsa, cioè la milza fritta nello strutto. Lo sfincione è una pizza soffice e spugnosa con sopra sugo di pomodoro, cipolle, acciughe e caciocavallo. La panella è una frittella di farina di ceci. La quarume, versione locale della caldume, è un insieme di interiora di vitello cotte nel brodo e guarnite con prezzemolo e fette di limone. L’elenco potrebbe continuare, ma come minimo dobbiamo citare ancora i frittolari, non fosse altro per la incredibile tecnica di vendita. La frittola è un miscuglio di scarti di macellazione: cartilagini, nervetti e frammenti di ossa, bolliti e poi rosolati e conditi con il pepe nero. L’ambulante mette tutto in un paniere coperto da cui attinge con le mani senza che l’acquirente possa neppure sbirciare dentro. La frittola si può guardare solo dopo il pagamento.


AVQ-A-004084-0046JPG

(Gruppo di giovani al lavoro ricavano essenze dall'olio di arance     Autore non identificato     1920 ca.)


Questa è la Palermo dei Florio. Un periodo che nessun libro di Storia definisce così, ma che ha una data d’inizio e una data di conclusione. I Florio arrivano a Palermo nel 1799 e aprono un negozio di spezie, l’Aromateria, in via Materassai. Sessantuno anni dopo, quando arriva Garibaldi, sono già i padroni della città. Producono e imbottigliano il Marsala, inventano il tonno sott’olio, arriveranno a possedere 99 navi, il massimo consentito dalla legge, ma la centesima se la faranno realizzare in oro massiccio per esibirla all’ingresso dei loro uffici. E oltre ai cantieri navali governano il porto. Il nuovo Stato penalizza il Sud e verso la fine del secolo – quando il loro patrimonio ammonta a circa 100 milioni di lire – la fortuna dei Florio si avvia al tramonto. Ma è proprio in questi anni a cavallo del Novecento che la loro stella mondana brilla più che mai.

Palermo è ricca, o almeno lo sembra. Diventa grazie ai Florio una delle capitali dell’Art Nouveau. I regnanti di mezza Europa sbarcano in città ospiti di donna Franca, la moglie di Ignazio jr. L’Esposizione nazionale del 1891, con tutti i padiglioni liberty progettati dall’architetto Ernesto Basile, è l’apoteosi. In realtà il divario con il Nord sta crescendo. Venti anni prima la città più grande d’Italia era Napoli (489 mila abitanti), seguita da Roma (242 mila) e da Palermo (219 mila). Ora, a fine secolo, Palermo è superata da Milano e Torino. Se al Nord la paga di un operaio è di oltre una lira e mezza al giorno, dalla Sicilia si comincia a emigrare in massa. Prima verso la Tunisia, poi verso l’America. Con i cantieri navali in crisi, il commercio ambulante diventa una delle maggiori, se non la principale attività di sussistenza per chi non trova altro lavoro. I Florio faranno ancora sentire la loro voce, fondano il quotidiano “L’Ora” nel 1900 e poi inventano la prima corsa stradale al mondo, la Targa Florio. Ma la loro epoca finisce con la prima guerra mondiale.


ACA-F-19850A-0000JPG

(Due uomini trasportano un tonno appena pescato      Fratelli Alinari,  1895 ca. )


La grande svolta tecnologica arriva nel secondo dopoguerra. Vogliamo condensarla in quattro lettere? La parola è Lapa. E la Lapa è l’Ape Piaggio, che a poco a poco sostituisce i carretti che vanno scomparendo ma ne eredita le decorazioni dei paladini di Francia. Sul tetto della Lapa appare il megafono che aumenta i decibel dell’abbanniamento ma che poi diabolicamente – finita l’epoca del Geloso e iniziata quelle delle musicassette - consentirà al venditore di gridare anche con la voce registrata. Questi nastri, temiamo, sono andati perduti. Spiace che nessun antropologo o studioso di tradizioni popolari se ne sia occupato o li abbia catalogati. Perché in quel caso, come gli egittologi decifrano i geroglifici, noi potremmo oggi cercare di capire che cosa si diceva esattamente in quelle cantilene arrivate fino a noi dall’Anno Mille. La Lapa impera ancora, anche se poi alcuni si sono messi in grande e hanno comprato addirittura il Leoncino. E con il Leoncino sono arrivati anche i primi slogan in italiano. Me ne ricordo uno, ossessivo e ansiogeno: “Venti pacchi di sale mille lire, quando mi cercate non mi trovate”. Oppure: “Che faccio, me ne vado o rimango?”.

Oggi la millenaria storia degli ambulanti palermitani si perpetua. A dispetto di ordinanze, ingiunzioni, minacce di interventi, essi ogni giorno sono al lavoro come i commessi di Harrods. Ma il futuro è incerto. Perché se fossero applicate le leggi europee in materia di conservazione e igiene degli alimenti, solo pochi sarebbero in regola. E allora addio per sempre agli abbanniatori erranti di Palermo.

 

*ENZO D’ANTONA (Nato in Sicilia a Riesi. Cronista e poi capo del settore Economia al quotidiano “L’Ora” di Palermo. Per dieci anni a Milano al settimanale “il Mondo” con inchieste sugli intrecci tra politica, affari e criminalità organizzata. Dal 1997 al 2014 a “Repubblica” prima come capo della redazione di Palermo e poi all’ufficio centrale a Roma. Dal 2015 direttore della “Città di Salerno” e dal 2016 al 2019 del “Piccolo” di Trieste. Nel dicembre 2020 ha pubblicato il libro “Gli spaesati. Cronache del Nord terrone” per Zolfo Editore)



clicca qui per mettere un like sulla nostra pagina Facebook
clicca qui per seguirci su Twitter
clicca qui per consultarci su Linkedin
clicca qui per guardarci su Instagram