L'Iran e il viaggio che non andava fatto / 2

di EMILIO RADICE*

Partii da Tehran di pomeriggio diretto a Qazvin. Da lì contavo di fare la statale 49 fino a Rasht, per poi bordeggiare il Caspio fino a punto di confine di Astara ed entrare in terra azera. Non avevo calcolato, però, un paio di cose: che la strada avrebbe sormontato una catena montuosa, gli Alborz, che nel suo picco supera i 4500 metri, e che quell’itinerario sulla Lonely Planet è definito come “uno dei più pericolosi del mondo”. Mi trovai con le prime ombre della sera a guidare dopo Qazvin su una strada sempre più stretta e tortuosa. Tutto il traffico dei camion del mondo sembrava essersi concentrato lì. Grossi Tir russi, azeri e georgiani sparavano nuvole di grasso fumo nero arrancando sui tornanti. E io ero come una zanzara, sorpasso dopo sorpasso, con la moto che usciva e rientrava fra quei colossi di ferro, sempre più su, più su, fino al tetto dei monti. Col buio. Poi fu discesa. E fu anche pioggia a dirotto.

Il Caspio dalla parte iranica è come una vasca da bagno di acqua calda chiusa dalle montagne. La fortissima evaporazione estiva si raffredda salendo in quota e non potendosi espandere in pianura ricade sul versante nord degli Alborz, trasformando la regione nel punto con il maggiore tasso di piovosità della Persia intera. Ecco, io ci stavo in mezzo, guidando di notte su una maledetta strada tutta curve, spesso fangosa,priva di segnaletica, accecato dai fari. Arrivare al fondovalle fu una delle cose più faticose della mia vita. E una volta in piano, nel buio più totale, alla prima lampadina giallastra che vidi bloccai la moto e non mi mossi più fino all’alba. Era la tettoia di una segheria. Bagnato fradicio (al ritorno in Italia dovetti buttare via il passaporto tanto si era rovinato con l’acqua) mi distesi fra i trucioli e dormii. Ultimo ricordo prima di chiudere gli occhi, un topo che alla mia vista fuggì per lo spavento.

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(Iran , il lago di Orumye          foto di Emilio Radice)

L’alba fu un graduale ma non decisivo mutare della notte. Si passò dal nero a varie gradazioni di grigio, ma non fu mai bel tempo. Macché, pioveva. Ciò nonostante la Poderosa partì al primo colpo e proseguii per Bandar Azali, poi Hashtpar e infine Astara. Arrivai al terminal di frontiera stanco, completamente zuppo e con una gran fame. La zona doganale era uno spiazzo fangoso recintato. Da una parte c’era il gate dell’Iran, dall’altra quello dell’Azerbaijan. In mezzo erano parcheggiati vari Tir e i camionisti facevano la fila davanti a sportelli senza indicazioni. Furono proprio loro, i camionisti, ad accorgersi di me. Non era solito vedere da quelle parti un motociclista, tantomeno occidentale. Chi mi scattò una foto, chi mi offrì qualcosa da mangiare. Mi aiutarono a individuare il funzionario a cui portare i miei documenti. Non fu una cosa breve. Sempre sotto la pioggia rimasi lì una mattina intera. Poi mi diedero l’ok: potevo andare in Azerbaijan. Per farlo avrei dovuto semplicemente entrare con la moto in un piccolo lago di fango, non sapevo quanto profondo, e uscire dall’altra parte. Il gate azero era lì.

Ciao Iran, ma dall’altra parte non trovai un benvenuto. C’era un tipo al posto di polizia-controllo-passaporti con una grande testa tartara e una faccia inespressiva. Mi venne di chiamarlo Taras Bulba. Prese il mio passaporto e nemmeno lo sfogliò, lo appoggiò in un canto della scrivania. Poi si concentrò nella pulizia delle sue unghie. Si strizzò anche qualche punto nero e si alzò per prendere una birra da un frigorifero mezzo arrugginito. Infine accese la tv per vedere non so cosa. E io restavo lì, invisibile. Avrebbe dovuto aprire il mio passaporto, mettere un timbro sul visto di entrata e farmi tanti saluti. Invece niente, non muoveva un dito. Io ovviamente provavo a dirgli qualcosa, protestavo, insistevo. Arrivai persino a prendere il passaporto e a metterglielo davanti al viso gridando “stamp, stamp”. Mi bastava un timbro, tutto qui. Ma lui niente, come fosse cieco e sordo mi scostava la mano e sfilava uno stuzzicadenti da una scatolina per toelettarsi le gengive.Valico di frontiera di Astara i camionistijpg

(Valico di frontiera di Astara, camionisti              foto di Emilio Radice)

Sicuramente aspettava che gli offrissi dei soldi. Il sospetto diventò certezza quando da un ufficio vicino uscì venendomi incontro un tipo enorme, in camicia bianca e giacca grigia, che, staccandomi il braccio con una stretta di mano esageratamente cordiale, biascicò in frammenti di italiano: “Italia amigo, Italia champion. Welcome in Azerbaijan, 100 dollàri solo, 100 dollàri. Italia amigo, solo dollàri, capito?”. Era passata oltre un’ora, non ne potevo più. Mandai in modo altrettanto cordiale a quel paese lui e Taras Bulba, ripresi il mio passaporto, tornai alla moto, feci dietrofront e…. tornai verso l’Iran.Iran bazar di Tabrizjpg

(Iran, il bazar di Tabriz                             di Emilio Radice)

Il viaggio impossibile toccò allora il suo culmine, perché immaginatelo voi un funzionario della frontiera iraniana che si trova un motociclista italiano che viene dall’Azerbaijan senza avere sul passaporto né un timbro di uscita azero né un visto valido per entrare in Iran. Altro che mancanza del Carnet: mancava tutto! Un tilt perfetto.

Il direttore della dogana venne a parlarmi per capire qualcosa di quel casino, e non so fino a che punto ci sia mai riuscito. Da parte mia ricorsi a un linguaggio semitrogloditico, “the Azerbaijan police said no when I entered. What can I do?”. Lui, con aria rassegnata, mi disse allora di attendere, dopo avermi fatto accomodare in una stanza calda e confortevole, assicurandosi che mi fosse portato un tè bollente e una fetta di un loro dolce molto buono. Poi dopo circa un’ora tornò tutto mortificato, scusandosi in ogni maniera. Quale il motivo? Doveva chiedermi quaranta dollari per le spese della pratica. E giù con altre scuse. Era un bel signore gentile, gentile per davvero. Quando mi riportò il passaporto, con un pagina tutta scritta a penna e timbrata mille volte, per me incomprensibile, era raggiante. “I asked Tehran and now it’s all ok, you can go! Have a nice trip and... sorry again”. Grazie, grazie davvero. E’ per cose così che mi sono innamorato dell’Iran.

Il ritorno fu altri monti e altri pianori, ma con meno pioggia finalmente, verso Tabriz. Da lì avrei ripreso la via per Bazargan e la Turchia. Passai ancora una notte in sacco a pelo da randagio, poi, nei dintorni di Marand un fornaio volle dividere con me una brioche appena sfornata e mi diede un pane così caldo che me lo infilai dentro la giacca per fare evaporare il freddo che ancora mi restava nelle ossa.

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(Sinop, sul Mar Nero       foto di Emilio Radice)

E’ strano come passando i confini uno ridisegni i suoi. Fu strano arrivare alla frontiera turca considerando per la prima volta la Turchia come Occidente. Sapevo già che a Dogubayazit avrei ritrovato la mia camera all’Hotel Derya e che avrei potuto usare di nuovo bancomat e carte di credito. Da un Paese sottoposto a embargo sarei tornato dove al denaro era consentito di essere un consumo.Mi sorpresi ad avvertirlo come una libertà.

Ma, prima di varcare la frontiera dell’Iran, ai funzionari che perplessi leggevano quella paginetta di passaporto scritta dal loro collega di Astara, dissi: “Non so cosa ci sia scritto, fate voi. Io adoro il vostro Paese ma so anche che devo assolutamente ritornare a casa. Alla dogana di Astara lo hanno capito molto bene. Inshallah!”. Mi sorrisero e furono tutti come sollevati. Ma sì, al diavolo la burocrazia, il nocciolo era quello. Vollero portarmi a mangiare al ristorante assieme a loro. Mi regalarono infine una di quelle collane che sgranano spesso fra le dita, come un rosario. “Salam aleikum” alla fine dissi loro. “Aleikum salam” mi risposero stringendomi la mano. E si alzò la sbarra. Tornato in Italia appesi il rosario iraniano accanto al letto, vicino alle Anabasi sul mio comodino e alla tessera del bancomat nel mio portafoglio.

(2 - FINE)

1a puntata

*EMILIO RADICE (Nato nel 1949 a Roma, a metà strada fra la Napoli paterna e la Livorno di mammà, ha lavorato prima a Paese Sera poi a Repubblica. Motociclista convinto, spesso si perde in lunghi viaggi solitari alla ricerca di tracce filosofiche e reali) 


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