L'Iran e il viaggio che non andava fatto

di EMILIO RADICE*

Il viaggio da non fare è il frutto di una irragionevolezza fascinosa, l’impuntatura d’un capriccio adulto, un andare nonostante tutto. Ora che è passato qualche anno è un ricordo grato, ricco di colori e di umane sfaccettature, ma la follia resta come l’osso di seppia di una esperienza che poteva anche andare male.

Iran 2009, quando al potere c’era Mahmud Ahmadinejad e nei disordini di piazza moriva chi manifestava per la libertà. Un nome fra tutti, Neda Saleh, la ragazza uccisa in Karengh Street, a Tehran, il 20 giugno. Ventuno giorni dopo avrei compiuto 60 anni e mi ero messo in testa di festeggiare con un viaggio in solitaria, alla vada-come-vada, nel Paese degli ayatollah. Dunque avevo preparato la motocicletta, la mia vecchia Bmw R100R del ’92 detta “La Poderosa” (come quella di Guevara, che però era una Norton 500 M18) e avevo ficcato nel bagaglio qualche carta geografica, il sacco a pelo, una manciata di medicine e la fedele Nikon reflex. Poi mi ero lanciato.

Aria, aria, aria. Ne avevo bisogno. L’anno che mi lasciavo alle spalle era stato pesantuccio, anche per motivi di salute. E io, fra chi mi consigliava di passare una estate senza stress e chi di restare in poltrona, sentivo di dover dare una risposta a me stesso. L’obiettivo era quello: l’odore della Persia già lo avevo fiutato molti anni prima, quando ero arrivato a Dogubayazit, trenta chilometri prima del confine, dove l’Ararat è una sentinella sulla porta dell’Asia. E poi avevo alle spalle il viatico di mio padre che, nel dirmi “vai, vai, verrei con te….”, mi aveva regalato la Lonely Planet che a suo avviso era adatta allo scopo: l' Anabasi di Senofonte. Toccando poi Amasra, Sinop, Trabzon nella mia corsa verso oriente mi sembrò di ripetere proprio quel viaggio. Gridai persino “Thalassa, thalassa!” sulla sponda del Mar Nero, per rivivere, anche nel suono, l’avventura di quei mercenari greci di duemilacinquecento anni fa.Il gelataio di DogubayazitJPG

(Il gelataio di Dogubayazit     foto di Emilio Radice)

La mia però non era una fuga, io in Persia ci andavo. E, man mano che la strada sfogliava davanti a me le pagine del viaggio, sul telefonino continuavano a raggiungermi gli avvertimenti degli amici: “Ci sono stati altri morti a Tehran”, “Hanno espulso i giornalisti occidentali”, “La Farnesina sconsiglia fortemente di andare”. Ma un istante dopo una cupola armena all’orizzonte era più forte di ogni timore, l’urbanistica coloniale russa a Kars (leggete Neve, di Orhan Pamuk, per capire cosa è Kars) un irretimento, i sacchi di sabbia e le mitragliere turche nella curda Dogubayazit una adrenalina e l’incontro col soldato Mustafà davanti a un té fumante una tenerezza senza scampo: “Voi turisti passate come nulla fosse, ma io ho venti anni, sono uno studente, qui ci devo stare per tre anni e non so se tornerò a casa vivo…”.

Bisogna parlare con le persone per togliere loro le divise di dosso, bisogna stare lì, raccontare delle nostre cose, dei nostri amori, dei nostri problemi, per poi sapere dei loro, conoscere le loro speranze e le loro paure. Solo così l’assurdo delle guerre e dei confini appare in tutta la sua mostruosa monumentalità e il viaggio diventa un modo meraviglioso per incontrare l’uomo.

Il monte Ararat,sulla sinistra, ti sorveglia mentre tagli l’altopiano verso il gate di Bazargan, per consegnarti infine agli sguardi di Khomeini e Khamenei, in cornice sopra i reticolati, incombenti. La porta dell’Iran. Fu quello il momento in cui avvertii davvero il “senso di barriera”: stavo per lasciare una zona nota per entrare in uno spazio bombardato da giudizi e pregiudizi.E ci sarei entrato da solo, senza alcuna organizzazione alle spalle. Un po’ d’ansia c’era. Ma d’altra parte era questo il viaggio che volevo e lui mi presentava la sua sfida, la prima delle tante che sarebbero venute subito a seguire.

“No no no, it is not possible for you to enter Iran! You have to go back”. Quando il corpulento direttore della dogana iraniana, restituendomi con aria seccata passaporto e documenti, mi invitò a tornare indietro ebbi un tuffo al cuore. Ma come? Il mio viaggio moriva proprio lì, ai blocchi di partenza? Cosa c’era mai che non andasse nelle carte? Il visto lo avevo fatto a Roma prima di partire, l’assicurazione era ok, il libretto della moto pure, avevo anche la patente internazionale…. Ma il direttore fu perentorio: “You do not have the Carnet de passage en Douane. It’s impossible to enter Iran without the Carnet. Do you understand? No Carnet, no visa. Go back, go back!”. E poi, voltandomi la schiena gesticolando nella sua giacca stazzonata, “Impossible, impossible….”, si chiuse nel suo ufficio.Frontiera iraniana insieme a Mr Suleimanjpg

(Frontiera iraniana, Mr. Suleiman - a sinistra       foto di Emilio Radice)

 Per chi non lo sapesse il Carnet de passage en Douane (informarsi sul sito dell’Aci) è un documento difficilissimo a ottenersi, vera spina nel fianco di ogni libero motoviaggiatore, e fino a quel momento non ne sospettavo nemmeno l’esistenza. Ma fu proprio allora, e grazie proprio a questa mia manchevolezza, che fra me e l’Iran si stabilì la prima intesa, un riconoscimento reciproco e profondo che mi avrebbe poi accompagnato per le settimane a seguire, come un esperanto dell’anima che, ben oltre il poco inglese, avrebbe sempre permesso di capirci. Perché dal gruppo dei doganieri che erano rimasti attorno a me, costernati, si staccò uno, poi conosciuto come mister Soleiman (Salomone), che strizzandomi l’occhio mi fece: “Wait a minute, maybe there is a possibility….”. E di lì a poco andò in scena il classico numero del buono e del cattivo, di quello che dice sì e quello che dice no, del primo che insiste e dell’altro che poco per volta si piega e concede. Insomma dopo una mezz’ora di suspense la soluzione fu: 250 dollari per un visto non turistico ma di transito temporaneo attraverso l’Iran. Per dove? Per il Pakistan? “No no, il Pakistan no, siete matti?”. Per l’Azerbaijan allora, varco di Astara, sul Caspio, da passare entro tredici giorni. “Ok?”. Ok, affare fatto, ecco i 250 dollari e qua la mano. Potevo andare. E intanto avevo capito che anche in Iran, se uno sapeva sorridere al momento giusto, tutto si appianava.Ma sì, dai, un po’ come da noi.

Davanti a me da lì a Shiraz, passando per Tabriz, Orumye, Kashan, Esfahan, Yazd…., si aprì un viaggio destinato a donarmi momenti indimenticabili,in luoghi magici e fra bellezze mozzafiato. Ma non è ciò che qui si narra. Questa è la storia di un viaggio irragionevole, difficile e mal preparato, spesso incosciente. Un viaggio, da non fare, che a poco a poco diventò un imprevisto tour di incontri e di umana comprensione.Il rosarioJPG

(Il rosario        foto di Emilio Radice)

Fu contando su questo, ad esempio, che non diedi molto peso al limite del visto che mi era stato imposto alla frontiera. Mi dicevo: tredici giorni? e cosa mi potrà succedere se invece resto in Iran quindici giorni o venticinque? non accadrà nulla, vedrai, comprenderanno. Con la medesima coerenza alla sbarra del casello autostradale fra Tabriz e Tehran mi era stato concesso di passare senza il pagamento del pedaggio. Esemplare il colloquio avuto con il casellante: io “Quanto pago?”, lui “Niente, può passare”, “Non c’è tariffa per le moto?”, “No perché le grosse moto in Iran sono proibite”, “Ah! E dunque ora che faccio?”, “Dunque non è previsto un ticket per loro. Passi e basta”, “E se mi ferma la polizia?“, “La polizia comprenderà. Welcome in Iran mister, salam”. Da allora puntai sempre sui varchi col semaforo verde passandoli d’infilata, senza più fermarmi. E tutti gli incontri con la polizia si risolsero con un liberatorio “Italìaaaa! Totti, Buffon, Del Piero….” e giù strette di mano e pacche sulle spalle.

In tutto questo c’era un “ma” ineludibile: siccome in tasca avevo un visto di transito temporaneo per l’Azerbaijan dovevo procurarmi il permesso di ingresso per questo Paese, altrimenti sarebbero stati guai. Non fu semplice. I risentimenti reciproci fra terre frontaliere resero impossibile ottenerlo a Tabriz. Il console azero, squadrandomi con occhi semichiusi, mi pose la domanda delle domande: “Why?”. E non si spostò più da lì. Il sospetto delle spie nemiche attorno alla contesa del Nagorno Karabakh era più forte di tutto. “Why?”. A Tehran, più politica e arrangiona, invece il nodo venne sciolto rapidamente e in capo a un paio di giorni ebbi il mio bel visto per Baku sul passaporto. Ma ormai erano passate più di tre settimane. Prima di Tehran avevo gironzolato per tutto l’Iran senza problemi, persino quando ero incappato nella centrale nucleare di Natanz, circondata dai cannoni della controaerea, dove i soldati mi offrirono una iranian-cola. Ricordi indelebili. Ora, però, dovevo pensare assolutamente al mio ritorno.

(1 - continua)


*EMILIO RADICE (Nato nel 1949 a Roma, a metà strada fra la Napoli paterna e la Livorno di mammà, ha lavorato prima a Paese Sera poi a Repubblica. Motociclista convinto, spesso si perde in lunghi viaggi solitari alla ricerca di tracce filosofiche e reali)


clicca qui per mettere un like sulla nostra pagina Facebook
clicca qui per rilanciare i nostri racconti su Twitter
clicca qui per consultarci su Linkedin
clicca qui per guardarci su Instagram