L'INTERVISTA - Belloni: "Vecchia bici dimenticata, è l'ora di una lunga svolta"

di  ANGELO MELONE* 

Roma, ciclabile lungo il Tevere qualche giorno fa. Un signore - che cammina accanto parlando al cellulare - se ne esce con questa battuta: “Nun poi capi’, qua sembra che passi il Giro d’Italia”. In realtà c’era in quel momento una densità di biciclette medio-bassa per qualunque grande città con buona mobilità ciclistica… Mi è sembrata una immagine perfetta per un libro uscito da poco. L’indagine di una storica, Eleonora Belloni, che racconta il difficile rapporto tra l’Italia e la bicicletta. E che parte da un presupposto: il problema fondamentale è stato la progressiva distruzione della cultura della bicicletta. Da qui bisogna ricominciare.

“In tanti mi chiedono 'perché' una ricerca sulla bicicletta – dice Eleonora Belloni -. Perché penso che, da storica, ce ne sia bisogno per riflettere sul modo di essere della nostra società. Ora si fa un gran parlare di boom: è vero, sta tornando un po’ di moda, ma viviamo in un Paese in cui la bicicletta fa fatica a trovare spazi quotidiani e sicuri. Ci sono state politiche sbagliate sulla mobilità ma c’è soprattutto un problema culturale di fondo. Altrimenti sarebbe facile: si potrebbe dire ‘copiamo l’Olanda’, ma non funziona. La realtà italiana, la nostra scarsa cultura ciclistica, è il risultato di un lungo percorso che appunto ho cercato di ricostruire: da come la bicicletta ha iniziato a diffondersi al modo in cui non sono stati difesi i suoi interessi (ad esempio, da subito il mondo ciclistico in Italia è stato diviso). Persino il Touring – che nasce come Touring Club Ciclistico Italiano – divenne presto un’altra cosa.



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(Fattorini, 1905)


Ma che vuol dire costruire una cultura ciclistica in Italia?

Può sembrare un concetto sfuggente, ma non lo è. Vuol dire innanzitutto comunicazione, far affermare valori e utilità del mondo che ruota attorno alla bicicletta, mentre l'Italia sconta il fatto che almeno a partire da metà degli anni 50 la narrazione dominante è stata solo attorno all'automobile, con tutto quello che ne consegue anche a livello di status sociale e di identificazione culturale: il modo ideale di muoversi è stato rappresentato nell’avere l'automobile. Bisogna riuscire a scalfirla, ma questo è possibile se si conosce da dove veniamo. Solo così si evita l’errore di pensare che da un momento all’altro l’Italia prende una bici e comincia a usarla. Le autorità pubbliche, chi decide, devono aver voglia di dar vita ad una svolta di lungo periodo che è il contrario di inaugurare casualmente qualche pista ciclabile.

Da dove iniziare? Come ci aiuta la storia che lei ha indagato?

La comunicazione verso i cittadini deve partire secondo me anche dall’età scolastica. Contestare un modello per il quale il sogno è su quattro ruote. Gli interventi per aprire la strada alle bici come mezzo quotidiano di spostamento devono andare di pari passo con il rafforzamento di questa svolta culturale: non bastano infrastrutture e leggi. Bisogna iniziare a dare una nuova immagine di bicicletta, un'immagine di modernità come è avvenuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando la bicicletta divenne avvincente. Ma certo non può essere incentrata sul mito della velocità, come allora. Ora modernità è rispetto dell’ambiente e della sostenibilità, ma soprattutto libertà di scegliere il modo di muoversi. Questo mette in crisi il modello di un mondo fatto solo di automobili: scelgo di spostarmi in bicicletta perché in fondo non è da poveri, anzi è una occasione di essere liberi. E in condizioni di sicurezza.


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(Piazza Duomo     Milano, 1920)


Quando è entrato in crisi il rapporto tra L’Italia e bicicletta?

Ci sono due momenti che hanno portato all'abbandono culturale della bicicletta. Il primo è sicuramente quello del ventennio fascista. Il fascismo si presenta con un’idea di modernizzazione che è rottura totale col passato: la bicicletta deve essere messa da parte a vantaggio di tutto ciò che è più moderno e che si traduce nell'idea della motorizzazione di massa. Di fatto resta solo un’arma della retorica fascista, però si afferma la divisione fra utenti forti e utenti deboli della strada. Culturalmente la bici viene marginalizzata. Anche se nella realtà, in un Paese povero come era il nostro, è un completo fallimento: tra difficoltà economiche e autarchia la bici rimane il mezzo della maggioranza degli italiani, ma il regime la associa all’idea del sacrificio, del risparmio, del mezzo povero ma di cui non si può fare a meno. E questo condiziona l’immaginario collettivo: nell’immediato dopoguerra la bicicletta va a finire tra tutte quelle cose che devono essere messe da parte il prima possibile, perché vengono associate alla povertà.

Questo del ventennio è un passaggio importante e spesso dimenticato. E poi c’è il boom economico

Certo, ma soprattutto c’è il modo in cui l’Italia entra nel miracolo economico, da Paese lontano dalla industrializzazione e dal mondo agiato. Tutto avviene in maniera rapida e artificiale, sostanzialmente importando il modello americano. Che ha alla base la motorizzazione di massa come presupposto della società del benessere.

La distorsione avviata nel Ventennio si materializza qui

Sì, esplode e conquista persino il mondo ciclistico. Ho trovato pubblicità della Bianchi che dicevano: mettete la bici nella vostra auto e fateci un giretto in vacanza. Nasceva la Graziella: la bici diviene un accessorio dell’auto. E nel discorso pubblico la bicicletta diventa completamente invisibile, nei progetti di pianificazione urbanistica semplicemente non c’è.


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(Pista ciclabile in costruzione a Milano, 1942)


Nel suo libro c’è anche una riflessione storica particolare sul rapporto tra “il ciclismo degli eroi” e la diffusione di massa della bici. Con tanti problemi.

E’ un aspetto da approfondire anche nei suoi grandi meriti, ma non c’è dubbio che dove si è sviluppata un grande passione popolare per il ciclismo sportivo (Italia, Francia, in parte Spagna) c’è stato un abbandono precoce della bicicletta nella cultura collettiva. E’ come se il ciclismo sportivo, il ciclismo degli eroi, abbia in una certa misura contribuito ad allontanare un po’  la bicicletta dall’idea di essere un mezzo di uso quotidiano. Ma, attenzione, c’è come dicevo anche un grande merito: di sicuro nel momento in cui è stata abbandonata come mezzo di trasporto individuale, la passione per il grande ciclismo ha in parte contribuito a mantenere l'idea di bicicletta nella cultura italiana. Non a caso il Giro d'Italia rappresenta davvero una delle istituzioni più longeve del nostro Paese.

E ora che il ritorno alla bici è, in modi diversi, almeno iniziato?

Non sarebbe male che finalmente si creasse una specie di alleanza tra i diversi tipi di “ciclismi”. Parlo del mondo delle competizioni, di quello industriale, del ciclista urbano, del cicloturista, fino al ciclista della domenica. Oltre al tema comune della sicurezza, ce ne sono tanti che formano i diversi aspetti di una cultura della bicicletta. Andare a discutere – anche con le Istituzioni – con un fronte comune, sarebbe un’altra storia…

Una domanda è obbligatoria: lei si sposta in bici?

Ci vado ma non mi sposto. Abito a Montepulciano, luogo bellissimo nel quale la bici non è per me il mezzo ideale di uso quotidiano. Vado a piedi. Ma la domenica…”



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(Eleonora Belloni, “Quando si andava in velocipede”  Franco Angeli editore  32 euro)



*ANGELO MELONE (Nato nel '56, giornalista prima a l'Unità poi a Repubblica. Ama fare molte cose. Tra quelle che lo avvicinano a questo sito: la passione per i viaggi, tanta bicicletta e i trekking anche di alta quota)  


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