L'Endurance ritrovata, il mito di Shackleton ci parla ancora

di BRUNO MISERENDINO*

(foto d'apertura  © Falklands Maritime Heritage Trust / National Geographic)


Non vi dicono niente i nomi Ernest Shackleton e “Endurance”? Impossibile. Dovreste conoscerli anche se non siete navigatori o non avete la patente nautica, perché decine di libri, film e documentari ne hanno parlato.

Se avete ricordi vaghi, e non frequentate le storie di mare, rinfresco la memoria: il grande esploratore irlandese e la sua nave, affondata 107 anni fa dopo essere stata stritolata dai ghiacci, sono un mito assoluto della storia della navigazione. E’ un binomio che appartiene a un’epopea ormai lontana, quella delle grandi spedizioni al Polo Sud, ma in questi tempi cupi e tristi, dove i carri armati e i missili spianano gli ospedali dei bambini, i due nomi ci dicono ancora qualcosa: non sono sinonimo di trionfi e conquiste, ma di eroismo, pazienza, esperienza e bravura usati per salvare vite umane, anche quando sembrava impossibile.

Non arrivò mai al Polo Sud, Shackleton, ma dopo aver perso l’”Endurance” riuscì nell’impresa di salvare tutto il suo equipaggio affrontando su una scialuppa di sette metri 800 miglia di mare ferocemente freddo e difficile. Senza strumenti, solo un sestante. Nessuno ci riuscirebbe, oggi.

La notizia è che l’”Endurance”, il vascello di 44 metri all’origine dell’impresa e del mito di Shackleton, è stata ritrovata.  E’ in fondo all’Oceano Atlantico, nel mare di Weddell,  a nord est dell’Antartide. E’ stata una spedizione partita da Città del Capo, in Sudafrica, a fare la scoperta.  Localizzato il relitto a 3000 metri di profondità e diffuse le prime emozionanti foto scattate da un drone subacqueo, gli studiosi stanno ora mappando la zona e esaminando tutta la nave adagiata sul fondo. Ma non la toccheranno né la recupereranno: come prevede il trattato Antartico, che regola l’utilizzo delle porzioni disabitate del continente, il relitto della mitica “Endurance” è considerato un monumento da proteggere.


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(L'affondamento dell'Endurance  -  Royal Geographic Society


A bordo, più di un secolo fa, si consumò un lungo dramma, durato mesi, con i ghiacci che circondarono la nave e alla fine la stritolarono costringendo Shackleton e il suo equipaggio di 27 uomini a scelte difficili e complicate, che in ogni caso davano una probabilità di salvezza pari a zero.

Tecnicamente l’”Endurance” sarebbe un monumento alla sconfitta, perché l’impresa che il grande esploratore voleva portare a termine, ossia la traversata dello sterminato continente, non riuscì. Non era nemmeno la prima volta che Shackleton mancava i suoi obiettivi al Polo Sud,  e la spedizione dell’”Endurance” doveva essere il coronamento di un sogno inseguito a lungo.

Era una nave solida, costruita in Norvegia e concepita per affrontare i ghiacci e lui, Shackleton, era forte dell’esperienza degli altri due sfortunati tentativi. Il primo fatto insieme a Robert Falkon Scott, un mostro sacro dell’esplorazione ai Poli. Insieme arrivarono a 480 miglia dal Polo Sud, ma dovettero rinunciare. Scott, forse geloso della crescente popolarità di Shackleton tra i membri della spedizione, lo spedì a casa per motivi di salute (lo scorbuto). Ma questo inglese nato nella campagna irlandese non era tipo da scoraggiarsi, e 4 anni dopo torna al Polo Sud con una spedizione tutta sua, finanziata dai governi australiano e neozelandese. Fallisce anche stavolta. Era circondato da marinai, mentre servivano esperti sciatori.

Ma già qui si vede il carattere di Shackleton: arrivato a soli 180 miglia dalla meta si ferma perché capisce che andando avanti non avrebbe più riportato vivo indietro nessuno. A chi gli chiese conto della rinuncia rispose sempre con una battuta: “Meglio un asino vivo che un leone morto”. Si accontentò del primato di avvicinamento al Polo Sud, ma gli venne strappato tre anni dopo da Amundsen e Scott. Gli restava a quel punto un solo obiettivo di prestigio: tentare la traversata dell’Antartide.



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(L'Endurance a vele spiegate   -  FrankHurley     State Library NSW)


 L’”Endurance” serviva a questo. Mise insieme un equipaggio di 27 uomini e salpò il 1° agosto del 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale. Sei mesi dopo, la mattina del 19 gennaio del 1915, Shackleton capisce che la sua impresa fallirà. Per la terza volta. “Le condizioni della banchisa sono proibitive - scriverà nel diario di bordo - in una notte il pack ha circondato la nave e dalla coperta non si vede più mare libero”. Chiamare e organizzare i soccorsi è impossibile. Decidono di passare sulla nave tutto il lungo inverno australe, in condizioni molto difficili, ma il 27 ottobre devono dare l’addio alla fidata “Endurance”, che affonderà un mese dopo compressa in una morsa  dai ghiacci.

Inizia una strana epopea, quella della pazienza, una virtù che il mondo non ha più. Si spostano prima in un accampamento d’emergenza, portandosi dietro tre scialuppe di salvataggio della nave, poi si mettono su un lastrone di banchisa che chiamano, non a caso, “Patience Camp”. Passano altri interminabili mesi, fin quando notano che il ghiaccio inizia a rompersi. E’ l’aprile del 1916, salgono sulle scialuppe e Shackleton è di fronte a scelte drammatiche: capisce che bisogna raggiungere al più presto la terra ferma, perché il ghiaccio non permette nemmeno di sciogliere la neve e dissetarsi.

L’equipaggio è bagnato e disperato. Compiono la prima eroica navigazione di sette giorni fino all’isola di Elephant, la più vicina, che però è ricoperta di neve e ghiaccio e battuta da venti impetuosi. E’ già un miracolo che l’equipaggio sia ancora tutto vivo, ma Shackleton capisce che per dare a tutti anche una minima speranza di sopravvivenza, lui in prima persona deve tentare l’impossibile: raggiungere la prima isola abitata per organizzare i soccorsi. E’ la Georgia del Sud: guardate sull’atlante dove si trova, sono 800 miglia (poco più di 1500 chilometri) da Elephant. 




Ma pensate soprattutto che lui parte con sette uomini su una barca di sette metri, in un mare battuto da venti implacabili, a temperature rigidissime, con indumenti che non sono quelli di oggi, con pochissime scorte, e in pratica con un solo strumento nautico utilizzabile, il sestante, per capire la posizione e la rotta. 

Alzi la mano chi sa usare il sestante. No, non la alza nessuno, perché ormai solo pochi vecchi e veri marinai sanno come si usa. Adesso ci sono decine di strumenti elettronici che ti portano dove vuoi. Solo che nemmeno adesso, con tutti gli strumenti più moderni, trovi uno che fa 800 miglia in quei mari con una barca di sette metri. Sbagliare la rotta, anche di pochi gradi, (e con il solo sestante era una cosa altamente probabile), avrebbe significato mancare la Georgia del Sud e perdersi nell’Oceano sconfinato. La morte. 

E’ questa la scommessa di Shackleton:  fidarsi delle proprie conoscenze e della propria esperienza. Sa di tentare un’impresa disperata, perché la piccola scialuppa potrebbe fare naufragio ogni momento, ma di una cosa è certo: non sbaglierà i calcoli. Ecco perché Shackleton è diventato un mito, ed ecco perché lo è soprattutto oggi, in un mondo dove tutti pensano di poter sapere e fare tutto. Lui è il simbolo opposto.  Ha studiato le carte, sa leggerle, sa navigare, sa usare l’unico strumento che ha, e lo sa usare alla perfezione. La speranza di sopravvivenza sua e dei suoi uomini, anche quelli rimasti a terra in attesa dei soccorsi, deriva solo da questa sicurezza.





Come disse Raymond Priestley, presidente della Royal Geographical Society: “Datemi Scott a capo di una spedizione scientifica, Amundsen per un raid rapido ed efficace, ma se siete nelle avversità e non intravedete via d’uscita inginocchiatevi e pregate Dio che vi mandi Shackleton”.

E infatti, quindici giorni dopo, Shackleton e i suoi vedono le coste alte della Georgia del Sud. Un miracolo. Solo che il vento li costringe a approdare nella parte disabitata. Allora, usando dei chiodi , lui trasforma le scarpe in ramponi e insieme ad altri due compagni attraversa trenta chilometri di montagne per incontrare i balenieri, che li guardano come marziani. Ci vorranno più di tre mesi per organizzare i soccorsi. La patria è in guerra, non darà nessun aiuto. Shackleton andrà a riprendere tutti gli altri a bordo di una nave militare cilena. Si, incredibilmente, tutti torneranno a casa sani e salvi.

L’impresa ha dato a Shackleton la notorietà che ha inseguito tutta la vita, onori, fama, rispetto, denaro. Ripartirà per l’Antartide e morirà di infarto a 47 anni, proprio nella Georgia del Sud. Quando si dice il destino. Come scrive Conrad, “il mare non è mai stato amico dell’uomo, tutt’al più è stato complice della sua irrequietezza”.  Bizzarro e coraggioso il mitico Shackleton, ma anche generoso e disperatamente pronto a salvare la vita dei suoi compagni. Un insegnamento, non solo per chi va per mare.


*BRUNO MISERENDINO (Nato a Roma nel 1951, inutile laurea in Storia, insegnante e poi giornalista all’Unità per 33 anni, inviato di politica per troppo tempo e per questo pre-pensionato felice. Amo la musica, anche se il violoncello non se ne accorge, alle città preferisco montagne, deserti e mare. Prima o poi andrò a vivere all’Elba. Ma devo sbrigarmi)


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