Le farfalle di Dosso Dossi e il condominio di Giove

di DANILO MAESTOSI*

Dipingo farfalle. Dove, se non in un quadro, potevo trovare questa risposta a chi mi chiede "come te la cavi ora che sei andato in pensione?». O a quelli che mi incalzano con altre domande quando vengono a sapere che da venti anni ho sdoppiato lE mie vocazioni, affiancando alla testimonianza di giornalista un secondo mestiere di pittore.

Ho scoperto questo quadro, folgorante ed enigmatico come il responso di una Sibilla o una parabola zen, per caso, visitando cinque anni fa una mostra al Castello del Buonconsiglio di Trento che rendeva omaggio a Dosso Dossi (1486-1542), un artista d’origine trentina cresciuto a Venezia alla scuola tonale di Giorgione e Tiziano, che ha poi attraversato le grandi corti del Rinascimento, Milano, Ferrara, Firenze, Roma, rimodellando ad ogni tappa la sua ispirazione e le sue pennellate per abbracciare e fondere in una originalissima ed eretica vena poetica le lezioni del classicismo di Raffaello e del manierismo monumentale di Michelangelo.

Una vita che ne racchiude, ne brucia e ne scalda tante altre, privilegio raro dei gaudenti, dei folli e dei geni, che gli valse pochi attestati di merito e un voto da media classifica nelle pedanti biografie di un notaio della storia dell’arte come Vasari.

Per chi voglia farsi un’idea della forza alchemica della pittura di Dosso Dossi suggerisco, quando cesserà l’embargo anticovid, una visita alla galleria Borghese di Roma, dove è esposta la sua opera più nota. E’ il ritratto di una maga, abiti sontuosi da gran dama, in mano una pergamena di segni esoterici, al fianco un cane dallo sguardo mansueto, alle spalle una sorta di miraggio agreste che strizza l’occhio alla «Tempesta» del suo amato maestro, Giorgione.

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(Circe o Melissa di Dosso Dossi)

Catalogata come Circe quella donna serena e rassicurante è molto probabilmente invece una figura dell’Orlando furioso, la maga Melissa, cui la fantasia dell’Ariosto affida il compito di proteggere Bradamante e altri eroi dai malefici incantesimi della sua perfida collega Alcina. La tela, datata 1524, risale al decennio che Dosso Dossi ha trascorso alla corte di Ferrara, fianco a fianco con Ludovico Ariosto, altro prestigioso intellettuale ingaggiato per dare smalto al ducato di Alfonso I d’Este. I due erano legati da reciproca stima e complicità di vedute: nel suo poema Ariosto incoronò in una breve glossa Dossi tra i grandi maestri del secolo, facile immaginare che il pittore lo ricambiò citando e dando forma ad uno dei suoi personaggi.

Allo stesso anno risale anche il capolavoro che ho scoperto e ammirato alla mostra di Trento. Un prestito in transito purtroppo. Per vederlo dal vivo bisognerà aspettare che riaprano le frontiere e concedersi una visita al castello reale di Cracovia dove è custodito. Identico anche il committente, quel sovrano illuminato che scelse e lanciò al successo Dossi come pittore di corte, eleggendolo persino a sodale di ricerche esoteriche e confidente del suo chiacchierato amore per Laura Dianti, la donna che colmò il vuoto lasciato dalla morte della moglie, Lucrezia Borgia.

Il titolo con cui ormai è stato ribattezzato, «Giove dipinge le farfalle», che potete usare come chiave di ricerca sul web dove sta rastrellando migliaia di follower, già lo segnala come un unicum: mai nel repertorio della pittura rinascimentale un artista si era cimentato con un soggetto apparentemente frivolo come questo. Mai nessuno prima aveva concesso alle farfalle un ruolo e un peso visivo così vistoso. Bisognerà contare quasi un secolo in più e arrivare a Caravaggio per vedere irrompere in una natura morta da cavalletto un cesto di frutta, il volo di un’ altra farfalla.

Le farfalle di Dossi non sono però schegge di realtà catturate e inserite a contrasto, il loro spazio di vita è mentale, il celeste sporco di uno spicchio di cielo tagliato in alto da una nuvola, la superficie di un dipinto che un personaggio barbuto fasciato da una tonaca rossa, Giove scopriamo, sta completando. Dietro di lui altre due figure, quella di Mercurio, cappello alato d’ordinanza e caduceo nella mano sinistra, il dito dell’altra mano sulle labbra ad intimare silenzio ad una donna, abiti scarmigliati da popolana e modi concitati di chi ha fretta di ottenere udienza dal re degli dei.

Dicono i critici che impersoni la Virtù. E che venga a reclamare giustizia per un torto subito: la Fortuna, tracotante emblema del Caso, l’ha aggredita, sbeffeggiata e persino picchiata. L’aneddoto è contenuto in un testo scritto da Leon Battista Alberti, che veniva recitato durante i convivi nel teatrino di Delizie che Alfonso d’Este si era fatto costruire su un’isoletta in mezzo al Po, chiamando Dosso Dossi a decorarlo ed abbellirlo. Un’operina letteraria moraleggiante che serviva a suscitare dibattito tra gli invitati: chi conta di più, la Fortuna, cioè il destino smodato che non si fa imbrigliare, o la Virtù che impone, o almeno ci prova, la regola e il buon fine ad ogni azione umana? Probabile che il committente abbia affidato a Dossi questa traccia, obbligandolo a ritrarlo nei panni di Zeus, come è avvenuto vista la somiglianza con i suoi ritratti ufficiali: il duca, spiegano le fonti, era un appassionato di pittura e un mecenate che teneva molto al suo prestigio di uomo colto. Ma poi ha lasciato al pittore, che godeva dei suoi favori, ampia libertà d’interpretazione ed esecuzione. E Dosso Dossi quella libertà se l’è presa tutta. Trasformando quel quadro in una sorta di confessione dei propri dubbi e delle proprie ambizioni d’intellettuale e d’artista, di una complessità e modernità sorprendenti.

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(Giove dipinge le farfalle di Dosso Dossi)

Dov’è il Giove che conosciamo? Il tiranno infuriato e fazioso che scaglia dardi e incenerisce chi osa opporglisi? O il nume gaglioffo, narciso e perennemente infoiato che seduce, inganna, rapisce, violenta ogni donna di cui s’invaghisce, si confeziona un mondo a misura di desideri e capricci? Impossibile riconoscerlo in quell’uomo anziano, elegante ma dalle vesti dimesse, ingobbito nella sfida che impone al suo pennello, che appare più ardua di qualunque altra impresa Giove abbia consegnato alla biografia ed al mito. Così concentrato, così preoccupato, così mesto. Pensate: un dio malinconico. Inconcepibile persino per un nume pagano, che la concorrenza del cristianesimo e delle altre religioni monoteiste ha relegato tra le razze imperfette e in via d’estinzione. Prive di un requisito che fa di un Dio un vero Dio. Non l’immortalità, quella nel Pantheon classico si regalava pure come un titolo nobiliare. Ma del sigillo esclusivo della Creazione.

 E’ il tallone d’Achille della mitologia greca non aver messo mano alla nascita dell’Universo e dell’Uomo. All’inizio, come nelle moderne teorie del Big Bang, c’era solo l’indistinto del Caos. Poi chissà come spunta, attorniata da altre entità, la Grande Madre Gea. E’ lei a produrre per partenogenesi il suo opposto maschile, Urano. E ad accoppiarsi con lui per concepire dei figli che nulla ancora hanno di umano. Sono Giganti, Superuomini, mostri da fumetto in fondo. Tra questi c’è Crono che detronizza Urano, castrandolo e prendendo il suo posto per essere poi abbattuto da un altro figlio ribelle, Giove appunto che dall’Olimpo governerà la Terra insieme a fratelli, cugini e altri parenti acquisiti; un padrone di condominio, non un creatore, perché l’uomo non è sua creatura, come non lo è la Natura.

A questa genitura incompiuta sembra pensare il Giove di Dosso Dossi quando alla vista delle farfalle lo assalgono lo stupore e l’invidia. Forse anche la paura: non è un caso che due millenni dopo la teoria delle Catastrofi ci insegnerà a tener conto tra i fattori scatenanti anche del battito delle ali di un lepidottero. Sicuramente lo tenta la voglia di farla sua quella bellezza che è nata chissà come e sfugge al suo potere. Come? Dipingendola, avventurandosi in un’esperienza da comune mortale che non gli appartiene per replicare almeno forme e colori prima che si allontanino dallo sguardo, si dissolvano dalla memoria. Una lotta con la magia della luce e il transito del tempo che anticipa di tre secoli le cattedrali e le ninfee di Monet. Misurandosi da acrobata senza rete con l’ansia continua di sbagliare. Con la certezza di varcare verso l’ignoto le colonne d’Ercole, i canoni e le vincolanti metafore della iconografia del suo tempo. In quei dubbi, in quei tentennamenti Dossi si riconosce impotente come Giove. L’arte come punto di avvicinamento alla realtà, ma mai come approdo definitivo, perché l’arte può intercettare il mistero, ripercorrendone le orme dentro o fuori di sè. Ma non riuscirà mai a decifrarlo, a toccarne il fondo, proprio come succede agli enigmi dei sogni.

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(Sacra famiglia     di Dosso Dossi)

Perché non parli? si infuriava Michelangelo di fronte al suo Mosè. E’ un assillo che ancor oggi apre abissi a chi continua a cercare la propria verità nella pittura e attraverso la pittura, senza preconizzarne ed enfatizzarne la morte o tentare di sostituirla con qualche altro surrogato concettuale, come fa ad esempio Damien Hirst, superstar contemporanea in gran voga: anche lui ha dedicato molti lavori alle farfalle, rappresentandole con assemblaggi di esemplari morti, quadri come teche, campionature da entomologhi.

Chissà, forse a seguire gli echi che ci ridesta dentro, nella tela di Dosso Dossi l’attenzione andrebbe dirottata da Giove alle farfalle, l’effimero che diventa assoluto. E viceversa. Zhuangzi, grande poeta cinese del quarto secolo a.C, ha cercato di ammaestrarci con questo racconto: «Una volta sognai di essere una farfalla che svolazzava qua e là. Poi mi svegliai ed ero ancora io. Ora non so più se sono un uomo che ha sognato una farfalla o una farfalla che ha sognato di essere Zhuangzi».

Eugenio Montale in Ossi di Seppia ne ha tratto una conclusione che potrebbe sottrarre il Giove pittore al magone della sua inadeguatezza: «Passò nel riquadro azzurro una fugace danza/ di farfalle; una fronda si scrollò nel sole/ Nessuna cosa prossima trovava le sue parole/ ed era mia, era vostra, la nostra dolce ignoranza».

*DANILO MAESTOSI  (Romano, 1944, laurea in legge. Giornalista da 55 anni: Tempo, Rai, Paese Sera, Ansa, Messaggero. Ora collabora da pensionato per varie testate d'arte e cultura. Da 25 anni ha iniziato una carriera parallela di pittore. Non ha mai smesso di domandarsi perchè)

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