Le carsense di nonna Anna e il Libro di casa del '35
Questa è una ricetta storica. Una ricetta al quadrato. Sì, perché la nonna di mia moglie Agnese, Anna Visco Gilardi, classe 1891, l’ha scritta un sacco di anni fa strappando una pagina dal ricettario del suo prediletto figlio diventato dottore: Lino Rossi, anatomopatologo in Milano. E racconta di un prodotto destinato a tirar su di morale più di qualsiasi medicinale.
Il foglietto è ingiallito dal tempo. Tutto slabbrato ai bordi, come una mappa del tesoro. La scrittura è quella educata da una scuola che badava anche alla calligrafia, con un corsivo in cui risaltano soprattutto le maiuscole, ingentilite da curve morbide, imponenti. Insieme ad altre ricette – quella del panettone, quella delle melanzane conservate – e a cartoline del 1938 e del ’43, il manoscritto era nascosto fra le pagine del “Libro di casa 1935 – A cura dell’Editoriale Domus”, una vera guida per la donna di casa.
Ogni sua pagina conteneva i consigli della giornata, con il menù per il pranzo e quello per la cena. Una colonna per registrare le spese, in modo che non un centesimo andasse disperso. E massime terrificanti, del tipo: “La prima volta che tu mi inganni, la colpa è tua: ma la seconda volta, la colpa è mia”. Oppure: “Tale è la sorte ria d’ogni libro imprestato / Sovente esso è perduto, sempre esso è guastato”. In realtà l’agenda è servita, nel corso degli anni, a raccogliere le ricette pubblicate sui quotidiani, che in casa Rossi entravano regolarmente. Fra quelle ricette, numerose quelle scritte a mano, accuratamente conservate.
Nonna Anna mi aveva in grande simpatia, del tutto ricambiata. “L’è bel ciàr” (è bello chiaro) aveva detto in dialetto milanese a Tito, il figlio primogenito che sarebbe ben presto diventato mio suocero. E io avevo badato a coltivarla, quella simpatia: più di una volta Agnese e io avevamo caricato in macchina la nonna ormai ultraottantenne portandola a mangiare il gelato a Luino, sul lago Maggiore. Di fronte a un bicchierone di gelato con panna montata e amarene la nonna poteva giurare anche di vedere la Madonna. Per decenni era stata la regina incontrastata della cucina. A Natale preparava per la grande famiglia il tacchino ripieno: ricetta complessa, perché prevedeva di trasformare la bestia in una variante del vaso di Pandora, capace di ospitare e poi regalare ai commensali un ripieno variegato, ricco di sapori. Quando il tacchino veniva tagliato da Tito, riemergevano dalle sue viscere prugne, mele, castagne, e soprattutto i contesissimi “verzini”, cioè dei piccoli salamini che nelle quattro o cinque ore di cottura erano riusciti ad arricchire di sapori l’altrimenti insapore tacchinone, assorbendo a loro volta tutte le gustose sfumature regalate dai frutti che ingentilivano il ripieno.
La nonna Anna mi aveva accettato a tal punto al fianco dell’adorata nipote che anni dopo, prima del congedo, mi trasferì il compito di mantenere la tradizione familiare del tacchino natalizio. Gran donna. La sua vera passione erano i dolci. Li amava a tal punto che se li confezionava con cura. Tra le cose che custodiva religiosamente c’erano decine di bicchierini di carta arricciata, da pasticceria, di cui faceva incetta ogni volta che a casa di Tito arrivavano i cabaret di paste. Poi, le volte che durante la settimana nel suo appartamentino faceva i suoi dolcetti, se li serviva mettendoli in quei bicchierini.
La ricetta ritrovata, scritta di suo pugno con una matita, racconta di un “Dolce di carnevale”. Sottotitolo: “Le Carsense della Nonna”. La carsenza, ho scoperto, è un antico dolce tipico del Milanese. Non esiste una ricetta precisa, valida per tutti. Come gran parte dei piatti della tradizione popolare, in ogni famiglia esiste un modo di eseguirlo e gustarlo. Quello di nonna Anna, se la lettura del manoscritto non tradisce, è questa che trascrivo così come sono riuscito a leggerla, cercando là dove possibile di interpretare ciò che il tempo ha cancellato:
Mezzo chilo di farina 0.0
2 uova intere
50 grammi di lievito di birra – 1 cucchiaio olio –
la scorza di 1 limone gratugiata
1 pizzico di sale e (un pochino d’olio se si vuole)
Un goccetto di vino bianco –
2 etti di uvetta sultanina
qualche mela ranetta affettata fine
latte quanto basta per impastare (tiepido da scioglierci il lievito)
Mettere sull’asse la farina fare una fossetta per metterci gli ingredienti (uvetta dopo lavorata la pasta
Impastare bene mantenendo la pasta bella molle – Dopo lavorata bene metterla in un’(…) con tovagliolo infarinato e riporla per parecchie ore (dalle 10 del mattino al momento di (…) alla sera).
Rimpastare mettendoci le mele – Fare delle ciambelle rotonde, come vengono, tirate con il mattarello all’altezza di mezzo cent. e metterle nell’olio bollente. A colore dorato e ben montate saranno pronte da servire spruzzate di zucchero.
C’è un’ultima avvertenza, perché la ricetta riesca bene:
La pasta deve aumentare più del doppio
Lievitando in luogo lontano delle correnti
Buon appetito.
*FABIO ZANCHI (Da piccolo guidava trattori e mietitrebbie. Da giornalista, prima all’Unità e poi a Repubblica, ha guidato qualche redazione. Per non annoiarsi si è anche inventato, con Nando dalla Chiesa e altri spericolati, il Controfestival di Sanremo, a Mantova)
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