La razza e il ladro americano

di GIANNI MARSILLI*

La razza era finita in una nassa a campana. Era grande, sembrava una manta e si agitava piano, come se si preparasse al decollo.  La nassa l’avevano legata al moletto del porticciolo e la bestia era diventata oggetto di curiosità. I bambini la stuzzicavano con una lunga canna di bambù, gli adulti si stupivano delle dimensioni. Marko il pescatore spiegava che la cattura era stata casuale, che lui andava piuttosto in cerca di astici in certi anfratti rocciosi che conosceva, e dove sapeva che venivano volentieri verso la luce, ogni tanto. Con un bell’astice, se si allunga la polpa con il pomodoro, si condisce anche un chilo di pasta. E con un chilo di pasta mangiano fino a dodici persone. Anche tredici, perché a Maria, che cucinava per tutti, bastava una forchettata. Ma invece dell’astice, la mattina all’alba dentro la nassa aveva trovato quella specie di aeroplano color piombo, probabilmente ingolosito da qualche sardella finita nel cesto. 

Una simile cattura non capitava spesso in quel braccio di mare dalmata. Marko era rimasto interdetto. Dell’astice lui e Maria sapevano bene cosa fare. A noi, appena arrivati, ci avrebbero dato il benvenuto con una ‘bùsara’, avrebbero tirato fuori il bottiglione di vino di Sansego e nell’unica osteria del paese avremmo comperato una bottiglia di slivowitz. La serata d’inizio agosto sarebbe stata allegra e conviviale. Ma con una razza, che fare con una razza? Certamente non andava sprecata sulla griglia. Bisognava tirarne fuori i succhi, non perderne una goccia. Non si trattava mica di uno sgombro. Quel giorno Marko lascio’ la questione in sospeso e la razza prigioniera sotto il molo, la nassa ben chiusa. “Decideremo domani, non c’è fretta”, sentenzio’ pensoso, ché tanto la preda era nel suo elemento naturale.

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Il giorno dopo ci sveglio’ il sole d’agosto già alto e caldo di primo mattino. Avevamo neanche vent’anni e l’idea era di fare una corsetta sul molo e di tuffarci e nuotare, dritti dal letto al mare, senza tappe intermedie. Più tardi pane e miele, e latte di capra. Cosi’ fu. Ci voleva una mezz’oretta di bracciate per raggiungere l’isola di fronte, montagnosa e disabitata, non tutti ce la facevano e tornavano indietro nuotando lenti e appagati. Apparve Marko, intenzionato a tirare la razza fuori dall’acqua e prepararla per la cena. La sera prima aveva deciso di farla a pezzi e di lessarla, poi Maria ci avrebbe fatto una pasta, o una minestra. La pasta, assieme al caffé e lo zucchero, la portavamo noi da Trieste, sull’isola c’era solo un forno per il pane. Marko si avvio’ sul moletto con il suo passo lento e dondolante, arrivo’ in cima e rimase di sasso: c’era la nassa, ma la razza era sparita. Giro’ la testa verso di noi, ci trafisse con gli occhi. No Marko, no, non siamo stati noi. Continuo’ a fissarci in silenzio, come per capire bene se mentivamo. Ma non mentivamo, l’affronto non era venuto da noi. E allora chi l’aveva sfidato, a lui che era il sindaco ufficioso di quelle trecento anime, che aveva la barca più grande, che aveva appena allacciato l’unico telefono, che nutriva e trattava i suoi ospiti al meglio?

Si diresse verso l’osteria del paese, più per annusare l’aria che per bere un bicchiere. Fisso’ l’oste come aveva fissato noi, gli chiese solo se aveva sentito o visto qualcuno con una carriola, magari con dei giornali sopra. L’altro ci penso’, e gli chiese se per caso gli avevano rubato il pesce, e Marko annui’: “Non c’è più”, ammise con gravità minacciosa. Il sottinteso era che, se avesse trovato l’autore del furto, gli avrebbe spezzato le ossa. Anzi: tiro’ fuori il coltello a serramanico e passo’ il pollice sulla lama, cosi’ il messaggio sarebbe stato più chiaro.

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C’era un solo cliente nell’osteria, seduto davanti ad un quartino di bianco, le mani incrociate sul ventre da notaio. Era arrivato due giorni prima dopo più di vent’anni di assenza. Era emigrato oltreoceano subito dopo la guerra e gli era andata bene, commerciava in stoffe a Cleveland e dintorni. Il suo ritorno era stato un avvenimento. Era sbarcato dal postale che attraccava sull’isola una volta alla settimana come deve sbarcare lo zio d’America: panama bianco, vestito di lino beige, scarpe leggere chiare delle quali sull’isola nessuno sospettava l’esistenza. L’attendeva mezzo paese, e lui scese la passerella levandosi il cappello e agitandolo in segno di saluto, uno spettacolo. In America, dopo la guerra, era andato mezzo paese, e quelli che erano tornati per le vacanze o per ritrovare i parenti si contavano sulle dita di una mano. In compenso il postale scaricava sempre un sacco pieno di lettere, e un altro con dentro dei pacchetti, camicie, maglioni, transistor. Nessuno tornava per ristabilirsi sull’isola.

Marko si giro’ e lo vide. Disse solo: “Tu, ladro eri e ladro sei rimasto”. L’altro non fece una piega: “Ti sbagli”, e gli fece cenno di sedersi al suo tavolo. Marko era un tipo taciturno ma fumantino, si sedette e appoggio’ il serramanico sul tavolo, chiuso. Rifiuto’ il bicchiere che l’americano gli offriva e si predispose ad ascoltarlo con l’aria di quello che ti dice: vediamo le storie che t’inventi. E la storia era quella di Ada, di quando Marko ne era invaghito, di quando l’aveva portata al ballo a Lussino. E li’ avevano incontrato l’americano, che non era ancora tale ma che già progettava di diventarlo, e l’americano aveva invitato Ada a ballare su un’aria di “dalmatijnska”, musica lenta e melanconica di quella costa e delle sue isole. Marko non ci aveva visto nulla di male, salvo cogliere uno scambio di sguardi, la pressione della mano di lui sulle schiena di lei...Ma si era detto che no, scherziamo, Ada è mia, e quella sera ando’ tutto bene, ma non altrettanto nelle settimane successive, quando Ada si era fatta scostante e un giorno era sparita, via anche lei in America con l’altro, e Marko imbufalito sull’isola a pescar totani. Gliel’aveva rubata, come aveva rubato la razza, ne era sicuro. Ma l’americano gli disse che si’, che erano partiti insieme, lui e Ada, che era stato un colpo di fulmine, di quelli che non perdonano, ma che Ada era uno spirito libero, troppo libero per lui, che arrivati a New York con la nave lei gli aveva detto che voleva stare li’, dove aveva un parente, e che le dispiaceva tanto, poi pero’ aveva cambiato idea, e gli aveva detto che voleva stare con lui, solo con lui, e che anche Cleveland le sarebbe andata bene. E a quel punto lui le aveva detto: no, vai per la tua strada, starai meglio da sola, New York è il posto tuo, ed era partito da solo per Clevaland, e non l’aveva mai più rivista.

“Vedi, caro Marko. Abbiamo amato la stessa donna, io forse più di te. Ma lei voleva il mare aperto, una vita sua, capisci? E allora l’ho lasciata andare, è stato meglio cosi’. E non so cosa mi abbia preso ieri sera. Facevo due passi sul molo e ho visto quel pesce che si sbatteva nella nassa. Ho fatto come con Ada, l’ho liberata, non l’ho rubata”.


*GIANNI MARSILLI (nacque sul Carso, a cavallo tra oriente e occidente, e vive tra Trieste e la Francia, a cavallo delle Alpi. Malgrado la scomodità e l'età venerabile non ha intenzione di scendere. Tale schizofrenia non poteva che portarlo al giornalismo, lavoro che ha svolto a Trieste, Milano, Roma, Parigi, Bruxelles e un po' in giro per il mondo, soprattutto europeo. Al momento pensionato inattivo)

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