La nave fantasma e il Foro di Pompei

di ANGELO MASCOLO* 

«Qua sotto, tanto tempo fa, ci sbatteva il mare…».

Sotto il sole tiranno di agosto, la voce nasale è quella di un custode degli Scavi di Pompei. Con un fazzoletto in mano si asciuga in continuazione il sudore, mentre mostra a un gruppetto spaesato di turisti le rovine del maestoso tempio di Atena nel Foro Triangolare, all’estremità sud-ovest dell’antico sito. Passeggiando sotto l’ombra rassicurante di alberi secolari faccio fatica a pensare che mi muovo sulla schiena dormiente di un gigante fatto di lava solida e nera. Uno sperone appuntito che affonda le sue fauci nella città moderna, dominata dall’afa e dalle auto impazzite che si perdono tra i marciapiedi e l’ingresso dell’autostrada.

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Su una cosa ha ragione il custode degli Scavi, per un giorno guida improvvisata. A pochi metri da me e dai turisti (forse tedeschi) disorientati, qui, proprio tra le rovine monumentali del tempio e le fronde misteriose dei pini marittimi, c’era il mare duemila anni fa. Un orizzonte zeppo di marinai e navi; spezie e anfore provenienti da ogni angolo del mediterraneo. E soprattutto banchine affollate di egiziani, numidi, siriani e greci. E poi schiavi, politici, notabili e merci. Merci ovunque. In una giornata afosa come questa, con l’orizzonte sgombro di nuvole, avremmo visto le isole maggiori, Ischia e Capri, perdersi come due gocce in un mare senza fine.

Arrivo quasi al bordo della staccionata che separa il foro triangolare dalla boscaglia, nel punto in cui le rovine dell’Athenaion quasi sfumano in polvere di pietra. Un tempio eretto sei secoli prima della nascita di Cristo, imponente, dedicato ad Atena e al semidio Ercole. Da questa terrazza, metà naturale e metà artificiale, vorrei vederlo il mare, ricrearlo nella mente, afferrarlo a due mani e portarlo di nuovo dove stava duemila anni fa.

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Poi mi rivolgo di nuovo al tempio. Entro a passi lenti nel corpo di pietra, prendo confidenza col suo respiro, i suoi arti e la sua mente. Intanto vedo i turisti che si allontanano per entrare nel Quartiere dei Teatri, formato dal Teatro Grande e dall’Odeion, dove gli antichi pompeiani assistevano a commedie e tragedie; il luogo dove rivivevano i miti immensi di storie senza fine. Eppure c’è qualcosa del foro triangolare che ancora mi trattiene nelle rovine del tempio di Atena. Qualcosa che mi impedisce di proseguire il mio giro. Mi impasto di polvere e terra. Non rimane molto: il basamento scuro, pezzi di colonne, qualche capitello incrinato, qualche accenno del naòs, il nome con cui i greci chiamavano la cella dove si trovava la statua della divinità.

In realtà, dietro il riflesso delle colonne di ingresso al foro triangolare e all’ombra della base di statua di Marcello, genero di Augusto e protettore della colonia di Pompei, cerco altro. Cerco lo spazio fisico in cui un tempo avrei potuto ammirare le metope dell’ Athenaion. Uno degli elementi, con tanto di figure umane e animali, che ornavano il tempio. Una volta, una delle prime in cui ho messo piede dentro gli Scavi, una guida o forse un custode mi parlò di una nave fantasma. Dentro al foro, mi raccontò, si è arenata una barca bellissima. Ma nessuno è mai riuscito a trovarla. Un racconto del genere, nelle mie fantasie di ragazzo, accese una curiosità sconfinata. Quella storia mi parlava di uomini e viaggi, di mete inesplorate e di orizzonti da disegnare. Così mi sono messo a cercare questa nave fantasma.IMG-4649JPG

Come ogni tempio dell’antichità che si rispetti, anche quello di Atena a Pompei era impreziosito di storie scolpite nella pietra, che raccontavano la divinità. Un modo per renderla più terrena e meno eterea. L’Athenaion pompeiano, in particolare, ha restituito metope con scene ispirate agli Argonauti che sotto la guida di Giasone salparono per la Colchide alla ricerca del Vello d’Oro. Tra queste metope ce n’è una in cui si vede un gruppo di uomini, le schiene curve per la fatica, che inchiodano il fasciame di una barca. Sopra di loro, a sovrintendere le operazioni, la dea Atena con tanto di scudo e berretto frigio.  Mi piace pensare che la nave che c’è e non si vede dentro al foro triangolare sia proprio quella chiamata Argo. La nave concava e nera che gli uomini della metopa stavano costruendo. Una nave inaffondabile e sicura, pronta a far leva alle latitudini più estreme del mondo conosciuto.

Lancio un’occhiata distratta all’orologio del telefono. Si sono fatte le tre. Il sole continua a ingaggiare la sua personale lotta con gli alberi per penetrare i misteri di cui sono tanto gelosi. Non vedo più i tedeschi e il custode, fuggiti a cercare ristoro dalla calura. Resto da solo sullo sterrato in compagnia dei silenzi monchi del tempio. Attorno a me sprazzi di sole e le ombre che si allungano su pietre e rocce. Decido di proseguire verso la Palestra Sannitica e il tempio di Iside quando a un certo punto sento delle voci. Sarebbe più corretto definirle un mormorio, un insieme di suoni rapidi e imperiosi che si susseguono con la stessa velocità della brezza che ha iniziato a scuotere la bolla di caldo pomeridiano.

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Non c’è dubbio: le voci provengono tutte dalla boscaglia, oltre lo steccato che delimita l’area del tempio di Atena e del foro triangolare. Mi avvicino di nuovo e allungo spalle e collo oltre la recinzione. Le voci mi attirano come una calamita la polvere di ferro. Sono simili a canti di sirene, ma più duri, e impenetrabili. Sicuramente voci di uomini, voci concitate. Dalla posizione in cui mi trovo, sopraelevata rispetto ai suoni, non riesco a mettere a fuoco per bene le cose che intravedo. Accade poi qualcosa: una voce si leva sopra le altre ammutolendo i suoni frenetici di pochi istanti prima. Una voce che viene fuori come un ordine. In poco tempo quella stessa voce viene coperta da uno strisciare sordo e ruvido.

La nave fantasma fende lo specchio d’acqua antistante Pompei come un coltello caldo una noce di burro. Non credo ai miei occhi. Vorrei chiamare qualcuno, urlare. Gridare ai quattro venti che la nave esiste, dirlo al custode, ai turisti tedeschi persi chissà dove. Dirlo a tutti.

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Non è una leggenda, no che non lo è. La nave di Atena, gli Argonauti, la Colchide e Giasone esistono. Sono usciti dal quadrato di pietra della metopa e hanno preso forma e vita propria. Ma sono solo nel Foro Triangolare. Non riuscendo a chiamare qualcuno, volgo di nuovo lo sguardo alla boscaglia.  La nave fantasma è diventata un puntino in mezzo all’orizzonte.  Eppure, dentro quella lontananza ormai irrecuperabile, riesco a distinguere un braccio attaccato a un corpo che sorride e che mi saluta dal ponte dello scafo che sta gonfiando le vele oltre l’umano.


*ANGELO MASCOLO (Sono archeologo, giornalista e scrittore. Ho collaborato con i quotidiani «Roma», «Metropolis» e «Il Mattino». Nel 2016 il mio romanzo "Palestra Italia" si è classificato secondo al Premio Letterario RAI «La Giara». A novembre 2017 è uscito «La primavera cade a novembre», giallo edito dalla casa editrice Homo Scrivens, arrivato alla seconda ristampa, che ha ottenuto diversi riconoscimenti a livello nazionale)

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