LA MOSTRA - Esiliati del mondo. Koudelka, un viaggio lungo una vita

di JOLANDA BUFALINI*

Le rovine non sono il passato,

sono il futuro che ci invita all’attenzione

e a godere del presente.

Josef Koudelka

 

Koudelka: “L’abbiamo perso. Abbiamo combattuto con il SOLE e abbiamo perso”. Ciò che abbiamo perso è l’attimo in cui la luce radente disvela, come avviene con il bagno della carta fotografica in camera oscura, l’immagine del guerriero romano in bassorilievo su un cippo, nell’isola di Lesbo. Il film documentario che conclude il percorso di questa mostra all’Ara Pacis - Josef Koudelka, Radici  - ha un fascino straordinario ed è di grande interesse. Il fotografo sta ore nel sito, si sdraia, si accoccola, cerca l’ombra poggiando la schiena su un rudere. Guarda attraverso l’obiettivo l’oggetto del suo desiderio. Aspetta, aspetta l’attimo fuggente e non sempre lo coglie. C’è qualcosa di epico nel sorriso con cui alla fine ammette: “Abbiamo combattuto e perso con il sole”.

Cecoslovacco, nato nel 1938, emigrato dopo l’invasione sovietica nel 1968, Josef Koudelka, che fu subito accolto dalla Magnum a Parigi, non ha mai fatto della sua professione di fotografo una attività commerciale. La macchina fotografica è stata, piuttosto, un modo di vivere e un modo di cercare la bellezza. Ingegnere, non ha mai esercitato il mestiere a causa della scoperta precoce della sua vera passione.

Il progetto più celebre realizzato prima del 1968, Gipsy, lo ha portato a condividere l’esistenza con la popolazione zingara della Slovacchia, fra il 1961 e il 1967. Lunghi anni durante i quali è penetrato nella cultura, nella religiosità, nell’umorismo, nella durezza, nella povertà, nel dolore e nell’allegria del popolo nomade e segregato in campi e baracche. E a scoprirne la bellezza nei corpi e nei gesti.

Se si fa eccezione per Invasione-Praga, nei giorni dell’agosto 1968 (le immagini erano siglate P.P.: Prague Photographer), quando evidentemente sentì il dovere morale e politico di documentare ciò che accadeva, tutti gli altri suoi progetti si sviluppano nell’arco di anni, spesso tornando negli stessi luoghi: “Le fotografie non sono mai le stesse, perché intanto io sono cambiato”. Anche le foto praghesi dell’Agosto, d’altra parte, si sviluppano nel tempo con le immagini legate al sacrificio di Jan Palach (gennaio 1969) e i funerali di Dubcek (novembre 1992). Exiles è il viaggio di una vita, provvisoriamente concluso nel 2017 quando Koudelka, alla soglia degli 80 anni, ha sentito la necessità di fermarsi a studiare le 35.000 stampe fotografiche frutto delle sue peregrinazioni. In Exiles racconta di sé ma soprattutto di altri. Racconta gli zingari e altri “esiliati”, in Europa e negli Stati Uniti, in manicomio, nei quartieri ghetto, fra i senza casa. “Non ho mai voluto un appartamento, ho capito che con i soldi che avrei speso per una casa avrei potuto viaggiare. Io voglio viaggiare. Non ho bisogno di molto: un paio di pantaloni, due camicie, un paio di scarpe, un giaccone mi sono durati per tre anni. Ho imparato a dormire ovunque. Dormire bene è importante se la mattina dopo vuoi essere in forma per ciò che devi fare”.


Stilisticamente l’immagine di Koudelka è sempre su diversi piani. C’è una vita che scorre dietro e intorno al primo piano, che si impone con tratto incisivo e deciso al centro del dramma. Ma è soltanto con Wall che adotta il formato “Panorama”, già utilizzato dal suo connazionale Josef Sudek (1896-1976), gigantesco fotografo anche lui, che si dedicò alla fotografia dopo aver perso il braccio destro nella prima guerra mondiale. I panorami di Sudek, che forse ne ha ispirato la tecnica, sono molto diversi da quelli di Koudelka. I paesaggi di Sudek hanno una grande forza classica, quelli di Koudelka sono teatrali, rappresentano il dramma come fa Orson Welles in Citizen Kane, giocando con le ombre e con le luci, come Piranesi nelle sue architetture fantastiche (Prigioni) e anche in quelle prese dal vero (Castel Sant’Angelo).


Wall è il progetto realizzato al confine fra Israele e i territori palestinesi occupati, dove è stato costruito il Muro che taglia e spezzetta la Terra Santa. “Un crimine contro la bellezza del paesaggio”. Radici, la mostra all’Ara Pacis a Roma (Ruins nell’edizione francese), è una scelta delle fotografie e dei luoghi visitati nel corso di un trentennio (1991-2019) sulle vestigia dell’antichità del Mediterraneo. Albania, Algeria, Cipro, Egitto, Francia, Giordania, Grecia, Israele/Palestina, Italia, Libano, Libia, Marocco, Siria, Spagna, Tunisia, Turchia. Ma non solo documentazione archeologica.


La mia opinione è che, sebbene cambino i soggetti, Wall e Radici ma anche Gipsy parlino di un’unica cosa, e che questa cosa è (citando Philip Roth) la macchia umana. La traccia dell’esistenza e della storia umana, vi siano oppure no esseri viventi nell’immagine, nell’immensità dell’universo fisico entro il quale l’occhio umano può spaziare.

(Josef Koudelka, Radici. Evidenza della storia, enigma della bellezza, Museo dell'Ara Pacis, Roma fino al 16 maggio 2021

La mostra è stata promossa nella sua unica tappa italiana da Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Contrasto e Magnum Photos, organizzata da Contrasto e Zètema Progetto Cultura, con la collaborazione di Villa Medici. Académie de France à Rome e Centro CecoLa retrospettiva è accompagnata dal volume Radici pubblicato da Contrasto)

 

*JOLANDA BUFALINI (Palermo 1954. Laurea in filosofia, giornalista. Per molti anni a l’Unità ma anche a Italia Radio, Diario, Rai2-Il raggio verde. In Russia quando si chiamava Unione Sovietica. Però anche: Iran, Algeria, Cecoslovacchia, Irlanda, Ex Jugoslavia, Ucraina. Poi: cronaca italiana e politica. Dal 2004 al 2010 capo della cronaca di Roma a l’Unità. Si occupa ancora di Roma, con “Roma ricerca Roma”. È direttrice di “Slavia”. Scrive per foglieviaggi, strisciarossa, succedeoggi, malacoda)  


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