La Montagna incantata fra la Cassia e il mare / 1
di GIANNI CERASUOLO*
- Me ne vado
- Oh, vaffanculo…
Erano fatti così, i miei amici. Teneri amanti al mattino, cani e gatti la sera. Eppure era mattino. Si andava sul Monte Labbro verso la Torre, una specie di cilindro di pietra, una sorta di chiesa: il Tempio di David Lazzaretti, il messia dell’Amiata. Ci si arriva facilmente in auto, da Arcidosso, si sfiora il Parco Faunistico. Ma poi devi fermare la macchina. E salire a piedi. Quel mattino di giugno faceva già caldo, le rocce calcaree che calpestavamo cominciavano a riscaldarsi. Ma non è che si stesse scalando il Nanga Parbat. Lui però s’era già stufato di quella piccola fatica e lei voleva proseguire. Siamo creature multiformi. Vinse lei.
Mi è sempre piaciuto salire sopra il cilindro. Quando non ci sono nebbie, foschie, quando il vento soffia e spazza via ogni cosa, ripulisce l’aria. Le prime volte pensavo di scorgere i due mari, lo devo aver detto anche a loro due: a destra il Tirreno a sinistra l’Adriatico. Lassù puoi persino sentirti il Capitano di Conrad. In verità, neanche con il cannocchiale si vedono le acque azzurre, che so, dell’Argentario. Pazienza. Quassù bisogna sollevarsi dalla terra e andare altrove: il silenzio aiuta nel tormento dell’esame di coscienza. Non è un caso che qui attorno ci sia un centro di meditazione del buddismo tibetano (Merigar). I posti dell’anima sono così fino a quando non rompono l’anima.
Il messia radunò la sua gente attorno alla Torre, braccianti, cavatori, barrocciai come lui, diede loro le sue leggi da visionario mistico e socialista: mettetevi insieme e fate un comunità, spartite in parti uguali le vostre cose. Si chiamarono (e si chiamano) giurisdavidici secondo la volontà del profeta e del loro Dio. Appena si allargò un pochino, il papa e il re gli piazzarono una pallottola in fronte: Lazzaretti morì così a Bagnore, un minuscolo borgo che si attraversa andando da Arcidosso a Santa Fiora. Era l’agosto del 1878. Chissà se faceva tanto caldo anche a quei tempi.
Ci sono tre strade per arrivare da Roma all’Amiata: l’Aurelia, la Cassia e l’Autosole, uscita Chiusi e poi la provinciale che attraversa le crete della Val d’Orcia. Carlo mi diceva: "Vedrai, poco più di due ore e sei arrivato". Bugiardo e baro, ha sempre pigiato il piede sull’acceleratore. Presi ad andare per la Cassia, è la più corta pensai. Salendo dalla Valle del Paglia, lasciata Acquapendente, verso Piancastagnaio, dalla parte senese. Smisi di percorrerla dopo che un’Alfa dei carabinieri un giorno mi si parò davanti interrompendo il percorso della mia auto e un minaccioso mitra mi chiese conto di documenti e meta del viaggio. Io e mio figlio fummo scambiati per banditi che preparavano l’assalto ad una banca.
La Cassia ti fa guadagnare un bel po’ di chilometri. Però poi paghi pegno con un traffico lento su una strada stretta. Alla fine scelsi l’Aurelia: divenne una consuetudine raggiungere Grosseto-Paganico per arrivare a Castel del Piano, dove presi casa. E’ la strada più lunga, poco meno di tre ore di viaggio (altro che poco più di due ore…), pericolosa in certi tratti, lastricata di autovelox; una corsa, si fa per dire, diritta lungo il mare e i colori delle campagne dell’Alto Lazio e la Maremma. Abbandonata la Roma-Civitavecchia, incroci l’Aurelia a Tarquinia. Pochi anni fa hanno allungato addirittura di una quindicina di chilometri il tratto autostradale. Un pezzettino in più dell’Autostrada Tirrenica, la nuova fabbrica di San Pietro dopo la Salerno-Reggio Calabria: una favola che raccontano da decenni, un fiume carsico che compare e scompare a seconda della convenienza politica, del mercato degli appalti, degli umori di quelli di Capalbio, dei veti ambientalisti e compagnia bella. Chi la vuole e chi non la vuole l’autostrada, chi vive in baracca chi suda il salario ma il cielo è sempre più blu.
(foto di Alice Santella)
Sono capitato all’Amiata sospinto da amici e dalle perlustrazioni sull’Aurelia. Volevo trovare casa fuori Roma, ogni tanto partivo e andavo verso la Toscana. Allora, fine anni Novanta inizio anni Duemila, cercavo posti a portata di tasca e nuovi panorami, il verde come un tappeto che mi cullasse, il blu zozzo del mare che non mi prendeva più. Quando passavo la Dogana Pontificia tra le due Pescia, romana e fiorentina, sentivo qualcuno chiedermi: chi siete, cosa portate, quanti siete? Un fiorino. Capita ancora.
La Montagna Incantata come padre Balducci chiamava il Monte Amiata, lui che era di Santa Fiora, è come se vivesse da sempre in lockdown, un confinamento particolare, circondata, anzi assediata, da posti che tutti invece conoscono. Compressa tra la Val d’Orcia superstar e le spiagge maremmane che si srotolano dalla Feniglia a Castiglione della Pescaia, su su fino a Castiglioncello, ma siamo ormai a Livorno, la lingua di mare e d’asfalto dove corse la Lancia Aurelia di Gassman e Trintignant. Anche il suo vino, il Montecucco delle colline di olivi e viti attorno al vecchio vulcano, è schiacciato dal Brunello di Montalcino a nord e dal Morellino di Scansano a sud. L’acqua calda delle viscere, che qui sopra pure abbonda in piccoli stabilimenti termali, pare invece che scorra soltanto a Saturnia, poco distante dalle ultime propaggini del massiccio amiatino, con il fiume Albegna e paesi dell’interno più interno: Roccalbegna, Semproniano, Castell’Azzara.
Allora tu devi decidere se stare fuori il confine della Montagna oppure dentro a certe condizioni: rispettare i tempi dei luoghi e della natura, non correre, assaporarla con bocconi che vanno masticati ben bene in modo che ti evitino un reflusso, attendere che prima o poi spuntino gli elfi, qualche Legolas del Bosco Altro. La vita è slow continua a ripetermi Massimo che di pozioni magiche se ne intende, essendo un farmacista.
(1 - continua)
*GIANNI CERASUOLO (E’ nato nel 1948 a Pozzuoli - non ditegli: ah, il paese il Sofia
Loren!. Ha lavorato all’Unità, a Repubblica e al Quotidiano della Calabria.
Emigrante? Si. Strimpella il piano ma è certo di suonare la Polacca in la
bemolle maggiore - Héroїque - di Chopin
al prossimo scudetto del Napoli)
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