Joan Didion, così ti dissacro Bob Woodward e Woody Allen
di ANNA DI LELLIO*
Con la scomparsa di Joan Didion giovedi scorso, abbiamo perso una delle scrittrici americane più originali. I lettori italiani la conoscevano dal libro The Year of Magical Thinking (L’anno del pensiero magico), un bestseller tradotto in moltelingue che racconta i pensieri e i sentimenti dell’autrice durante l’anno che seguì la morte del marito John Gregory Dunne, suo compagno di vita e scrittura. Dunne si accasciò al tavolo dove stavano cenando una sera del 2003, colpito da un attacco cardiaco massivo, dopo la visita in ospedale alla figlia Quintana Roo, in coma settico.
Leggendo il libro, ho condiviso il lutto della Didion come fosse il mio; la sola differenza era che per me si trattava della perdita dei miei genitori. Capii che la mia non era stata un’esperienza morbosa ma piuttosto catartica, quando due anni dopo andai a teatro a vedere l’adattamento del libro scritto dalla stessa Didion, diretto da David Hare e recitato da Vanessa Redgrave. Sul set la voce della Redgrave tendeva a prevalere su quella della scrittrice, ma provai la stessa sensazione di vedere il mio cuore infranto riflesso nelle parole dell’attrice.
(Il Watergate complex)
Chiunque abbia letto L’anno del pensiero magico capisce di cosa sto parlando, quindi la mia esperienza non è stata unica. Unico è il modo in cui la Didion è riuscita a universalizzare dei sentimenti così intimi, perchè lei, che si rifiutava di essere chiamata intellettuale, quando si trovava a dover scrivere di idee, astrazioni, “inesorabilmente tornava allo specifico, al tangibile, a ciò che era considerato il periferico da tutti,” come rivela nel saggio “Why I Write.”
Niente affatto intimorita “dall’io, io, io, io” che prende a prestito da George Orwell, la Didion spiega: “Io scrivo solo per scoprire cosa penso, cosa sto guardando, cosa vedo e cosa significa. Cosa voglio e cosa temo.” È la grammatica che le da il potere di mettere per iscritto quelle che chiama “le immagini che ho in testa,” immagini che riesce a comunicare solo dopo aver decifrato “quel bagliore sfumato da cui le vede circondate e che altro non è se non la grammatica.” Per lei cambiare la struttura di una frase è come per un fotografo cambiare la posizione della lente: altera il significato dell’oggetto.
Amo moltissimo la saggistica di Didion, che è lucida, diretta e sempre fuori dal gregge, nella migliore tradizione letteraria americana. Per il pubblico italiano che non la conosce, questo sarebbe il momento di andare a cercare i suoi articoli pubblicati dalla New York Review of Books nel corso di più di quarant’anni, ora disponibili in rete senza pagamento, e trovarvi delle sorprese. Qui propongo un paio di vecchi pezzi dissacranti.
(Joan Didion)
Tra i mostri sacri che abbatte con freddezza critica c’è Bob Woodward, decano del giornalismo in pista dai tempi del Watergate ed eroe di chiunque aspiri a fare il giornalista. Il titolo del saggio, pubblicato venti anni fa, è lapidario: “Lo spirito deferente.” Didion spiega che la longevità di Woodward come cronista del potere americano è dovuta al fatto che lui non si è mai trovato davanti al dilemma di dover scegliere tra abbandonare le sue fonti per mantenere l’integrità della storia o convenientemente scrivere la storia che le fonti avrebbero voluto. Non è uno scrittore scomodo al potere perchè è così bravo a rappresentarlo in modo personale e umano. Non ci sarebbe nulla di male in questo, ma per Woodward diventa un mezzo per restringere la messa a fuoco, circoscrivere il raggio delle possibili discussioni o speculazioni, e ridurre ogni rivelazione di azioni illegali e criminali alla responsibilità “della mela marcia nel barile, il mascalzone in un contesto di intenzioni decenti.”
Quando Woodward visita in ospedale il direttore della CIA William Casey, gli chiede a bruciapelo se avesse sempre saputo della vendita illegale di armi all’Iran, paese nemico, per poi finanziare con quei fondi neri l’opposizione armata dei contra in Nicaragua. E Casey dice di si. Quell’incontro avviene mesi dopo il completamento dell’inchiesta da parte del Congresso su quello che tutti conosciamo come lo scandalo Iran-Contra. La rivelazione di Woodward “non è più rivelante, non è più una questione, ma riflette la drammatizzazione di quello scandalo che fu preferita da Washington: non un problema strutturale ma una ‘storia umana,’ la storia di come l’hybris di un uomo avesse scosso le sane fondamenta dell’ ordine stabilito, una frattura dello status quo che finirà, giustamente, con la morte di quell’uomo.” “Pornografia politica,” la definisce Didion.
Quando di recente ho rivisto alcuni film di Woody Allen che amai molto quando uscirono, più di quarant’anni fa, ho provato una sensazione di fastidio difficile da spiegare. Poi ho letto la critica della Didion ai film “ seri” di Allen, Manhattan, Interiors e Annie Hall, e ho capito. Impagabile la valutazione che la Didion fa della lista delle ragioni per vivere citata da Allen in Manhattan: “E' eclettica seguendo la moda corrente, un tantino ironica, e definitivamente OK con il vero lino,” che in quella estate gli americani volevano indossare, quel lino sempre ciancicato simbolo di ricchezza: “Soprattutto, nella sua ragion d’essere, è una lista che resta essenzialmente passiva in tutte le esperienze che evoca…un consumer report definitivo.”
(Ombre rosse)
Didion non propone una critica cinematografica di quei film, ma una discussione su come il pubblico si è completamente identificato con storie e personaggi con i quali non ha nulla in comune. I personaggi di Allen sono adulti, con l’eccezione di Tracy (Mariel Hemigway), ma parlano come bambini intelligenti che recitano il copione di una visione fantastica della vita adulta. Quando parlano dei loro problemi o delle loro aspirazioni lo fanno con la falsa e disperata perspicacia dei bambini più intelligenti della classe. Il personaggio di Allen, che si vuole intellettuale, non dice nulla che non sia una veloce referenza storica o letteraria, un modo di dimostrare che ha studiato ma non di comunicare un’idea.
Da ultimo, vorrei suggerire la lettura di un vecchio saggio su John Wayne, intitolato appropriatamente “John Wayne, a Love Song.” Didion conosceva bene e amava John Wayne senza riserve, e su questo devo distanziarmi, perchè non è possibile dimenticare la politica dell’uomo e anche dell’attore in alcuni film, in particolare il suo radicalismo conservatore ai margini del fascismo. Ma è Didion a spiegare perchè, nonostante tutto, l’attore resti uno dei più noti e amati, simbolo di un’idea che nel bene e nel male è tipicamente americana: “In un mondo che presto capiamo è caratterizzato da venalità e dubbi e paralizzanti ambiguità, lui suggeriva un altro mondo, un mondo che può non essere mai esistito, e comunque non esisteva più – un luogo nel quale un uomo poteva muoversi liberamente, poteva crearsi il suo codice morale e seguirlo; un mondo nel quale, se un uomo faceva quello che doveva fare, un giorno poteva cavalcare con una ragazza attraverso una gola e trovare dopo la curva un fiume scintillante, con i pioppi che brillano al sole.”
*ANNA DI LELLIO (Sono Aquilana di nascita, ma mi sento più a casa a New York, Roma, e Pristina. Un po' accademica, un po' burocrate internazionale, e un po' giornalista. Ovviamente ho lavorato per l’Unità. Tra le mie grandi passioni giovanili c’erano lo sci, la lettura, i viaggi, il cinema e la politica. A parte lo sci, sostituito dallo yoga, le mie passioni attuali sono rimaste le stesse)
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