Jaipur la rosa, riusciranno i nostri eroi...

di MANUELA CASSARA' e GIANNI VIVIANI*

C’eravamo dati appuntamento a Delhi, in sei. Due bergamaschi fra cui O, un ingegnere, buongustaio ma con orizzonti culinari limitati al Padano, uno che considera “spezie “persino l’aglio e il prezzemolo, e G, stilista, per mia fortuna traveller navigata, che il sub continente se lo girava in lungo e in largo per lavoro almeno due volte l’anno e che,  per diporto, si andava a cercare posticini remoti tipo le Isole Andamane. Con lei non ci sarebbero stati problemi, anzi. Insieme, un paio di anni prima, eravamo andati in Kerala: Kochi, le Backwater, le piantagioni di tè a Munnar, le spiagge intorno a Kovalan. L’ingegnere, uno che ama il carboidrato, allora era felicemente sopravvissuto a forza di pane, riso in bianco e chapati con cauti assaggi di pollo e pesce alla griglia, quando gli si garantiva la loro neutralità. Il che non era spesso. Ora l’aspettavano altre giornate impegnative, almeno sul fronte mangereccio. Per il resto l’Ing. è uno curioso, che s’entusiasma. 

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(Al Bazaar      foto di Gianni Viviani)

Poi c’erano i due americani. Uno, J, americano di nascita, buon conoscitore del teatro e dell’arte ma novizio dell’India, che ora avrebbe dovuto affrontare lo shock culturale dei sapori, del caos, e dei disagi  del viaggio. L’altro, M, americano lo era diventato. A conti fatti, in America ci aveva vissuto più che in Italia, ma all’origine era romano de Roma, con un vissuto giovanile nella controcultura trasteverina e il Teatro di Memé Perlini. Ci conoscevamo da sempre, amichetti di gioventù; le nostre vite peripatetiche si erano incrociate più volte. E di viaggetti insieme ne avevamo fatti parecchi. Collaudato.

Poi c’eravamo noi due, gli anzianotti.  A me era spettato, per autoinvestitura, il consueto ruolo di organizzatrice. Avendo la responsabilità del comune benessere, per il soggiorno a Delhi avevo scelto come hotel il Metropolitan, uno di quegli albergoni asettici, con buffet galattici, a misura dei turisti più schizzinosi, che offriva garanzia di confort e pulizia, perciò era assolutamente carente in charme. D’altronde non potevo dare a J il colpo di grazia dal primo giorno.  

Già il secondo però era stata dura, per J. Dopo una mattinata senza traumi a l’Haus Khas Village, un quartierino proprio piccino, considerato trendy dalla gioventù locale, che avevamo raggiunto con l’ottima metropolitana e dove avevamo mangiato una pizza, nel pomeriggio ci eravamo diretti in tre tuc tuc nei meandri di Old Delhi.   I nostri rispettivi driver sembravano determinati a non schivare le buche, ma almeno cercavano di evitare i pedoni, le macchine, le motorette e le biciclette che ci sfioravano. A me i tuc tuc fanno lo stesso esilarante effetto delle montagne  russe. A M pure. Ci piacciono un sacco. Gli altri sopportavano stoici e curiosi.  Il fotografo purché ci sia da fotografare si adatta a tutto.  Solo J aveva mostrato i primi segni di cedimento. Mentre ci addentravamo nei caotici vicoli anneriti della città vecchia, tra nuvole di monossido di carbonio, avevo colto un terrore nel suo sguardo, mentre cercava di tenere incolonnato il nostro gruppetto, immune ai miei sorrisi che cercavano di essere rassicuranti.

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(Old Delhi station       foto di Gianni Viviani)

 La terza mattinata l’avevamo spesa nel vicino tempio Sikh, dove eravamo capitati per caso.  Un caleidoscopio di colori accesi, quelli dei turbanti impeccabili, dei saree svolazzanti, dei sawar kamiz eleganti, quelli dei buffi fazzolettini che venivano dati ai visitatori maschi di ogni età, anche ai più piccini, per coprirsi il capo, se sprovvisto di turbante. Ai due americani ne erano capitati, casualmente, due molto carucci, uno rosa con delle applicazioni ricamate, l’altro azzurro,  e avevo provveduto subito a sequestrarli una volta usciti. Il fotografo era in piena fase di bulimia fotografica, solo che il destino gli remava contro e la macchina troppo elettronicamente avanzata aveva dato forfait. Tra imprecazioni, le sue, e gli entusiasmi di noi cinque, era arrivato il momento della partenza per Jaipur.

In treno. Con tanto di prenotazione in Prima classe. Ma se i presagi hanno un significato, la giornata non era certo iniziata sotto i migliori auspici al tempio Sikh, e poteva perciò aver preso, come vedremo, un brutto andazzo.

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(I facchini alla stazione          foto di Gianni Viviani)

Alle 14, con ben ottanta minuti di ansiogeno anticipo  sull’orario di partenza, eravamo saliti su due taxi diretti alla stazione di Old Delhi, dove ci aspettava l’ Ashram Express per Jaipur. Che, come vedrete, invece non ci avrebbe aspettato affatto! Un concierge ottimista mi aveva assicurato  che il tempo previsto sarebbe stato "Twenty mins, sir". Qui chiamano Sir anche le donne, cosa, trovo, molto divertente. Un altro, più realista, l’aveva corretto portando i minuti a 30.   Per cui fatta la tara, visto che il treno partiva alle 15,20, ce ne avevo aggiunti altri venti e pensato: siamo in una botte di ferro. Ma le vie degli Indiani sono infinite.  Complice un traffico più del solito da girone dantesco, un tassista catatonico e rinunciatario (il nostro, non quello più sveglio dei due americani, che farà la differenza) noi quattro lombardi eravamo arrivati in stazione allo scoccare delle 15,20! Quasi un'ora e mezza per fare otto chilometri, tra i miasmi degli scappamenti e l’incessante strombazzare dei clacson. Puntuali al secondo, ma  solo per vedere probabilmente l'unico  treno puntuale in tutta l'India, il nostro, sparire all'orizzonte. Dei due americani, invece, nessuna traccia.

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(L' Amber Palace a Jaipur     foto di Gianni Viviani)        

In casi del genere, dentro di me, subentra un panico adrenalinico, che fa scattare  il mio "mode operativo” e iperattivo, quello per cui "devo" assolutamente e freneticamente risolvere il problema. A quel punto, ovunque io sia, qualunque sia la sfida, io mi concentro, mi attivo per salvare il mondo.

G, la stilista, che non mi aveva mai visto in azione, cercava di tranquillizzarmi con la sua strascicata parlata lombarda e l’abituale pacatezza di modi; avvezza ai disagi di viaggio, era certa che comunque si sarebbero risolti: “Calmati, ti viene un ictus”. Va tenuto conto che ero anche l’unica con una buona padronanza dell’inglese, che mi ero autoeletta tour leader,  quindi dopo una veloce scansione a 360° avevo identificato l’unico ufficio nei paraggi, che poi era quello del Deputy Manager. Un signore in blazer blu, distinto ed elegante, che dopo avermi scrutato indignato per l’ardire, mi aveva severamente informato che: primo dovevo scordarmi il rimborso; secondo che il prossimo treno sarebbe partito alle 17,20 e che non era un Express e non aveva la Prima classe, quindi che me ne facessi un perché e andassi, da brava, a farmi emettere i nuovi biglietti. Dopo di che aveva riabbassato lo sguardo sulle sue scartoffie. Per rialzarlo, subito dopo, impietosito dall'anziana stanziale e starnazzante sull'orlo di un’evidente crisi di nervi. Da gentleman di buon cuore, aveva sospirato, si era alzato e mi aveva guidato attraverso una serie di antri e meandri fatiscenti, fino agli uffici, sul retro della biglietteria aperta al pubblico.

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(Downtown Jaipur       foto di Gianni Viviani)

Gianni e i due lombardi, sbigottiti, mi avevano visto passare affannata, senza degnarli di uno sguardo o di una parola.  Biglietteria che, non fosse stato per l’amabile Deputy Manager, non sarei mai riuscita a trovare da sola e anche quando, mi sarei dovuta fare una lunghissima fila. Apostrofati imperiosamente dal capo, gli ossequenti sottoposti avevano iniziato a tirare fuori i moduli per le complesse pratiche di acquisto biglietti. Ora fare un biglietto del treno, in India, dove la burocrazia regna sovrana, non è una cosetta da due minuti, gli devi dare una serie d’informazioni molto precise, e per ognuno dei viaggiatori: età, dati anagrafici, residenza, tutti i dati del passaporto, manca solo come si chiama tua nonna e il  tuo numero di scarpe...  moltiplicate tutto questo per sei, e si capiva che ci sarebbe voluto il suo tempo e tanta pazienza. La faccio breve. Mentre ero lì, pronta a compilare la pila di moduli, ecco che arriva, inaspettata, una telefonata da J, che era riuscito a gracchiare un disperato "WE are ON A traaain”  prima che cadesse la linea. Al mio “quale?” le sue ultime parole erano state un “I DO NOT KNOOOOW! “ terrorizzato.

Da cui avevo potuto capire che gli scomparsi M +J, grazie al loro intraprendente tassista, ce l’avevano fatta a prendere il treno giusto, e ora si stavano godendo la Prima Classe, i maledetti. Nel frattempo, rimasti senza mie notizie, i miei mi avevano data per dispersa e m’immaginavano stramazzata a terra, senza conoscenza, tra cartacce e sputacchi. Cosa che, essendo qui abbastanza abituale, non avrebbe comunque attratto molta attenzione. Io invece, ormai in termini di affettuosa amicizia con il Manager, mi ero, dopo un tempo abbastanza infinito, ripresentata raggiante, e provvista di quattro biglietti per una spartana Seconda classe. Delle cuccette, quindi spazio in abbondanza, se non eleganza.  Finalmente, dopo 7 ore di noia e  sferragliamenti, dopo aver abbandonato l’idea, G ed io, di provare un unto e bisunto vassoietto di cibo take away contenente, credo, un riso pulau, del dhal e un non meglio specificato spezzatino, eravamo arrivati,  abbastanza provati e ben oltre la  mezzanotte,  nel nostro albergo dal nome altisonante: Naila Bagh Palace Heritage Home che,  come al solito, era  più delabrè di quanto mi fosse apparso in foto.  

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(L' Amber Fort         foto di Gianni Viviani)

Intanto i nostri J e M,  in base alla legge del “chi prima arriva bene alloggia”, si erano accaparrati la stanza migliore.  Ma il sollievo nel rivederli sani e salvi era tanto e poi si erano fatti perdonare, non solo con l’accoglienza affettuosa, quanto con l’aver  provveduto ad ordinare dei robusti Gin & Tonic,  assieme ad un piattone di samosas e pakora belli unti e bollenti,  che il bergamasco aveva sniffato, scrutato con truce sospetto e, di conseguenza,  ignorato.

Primo giorno a Jaipur, the Pink City, con i suoi pink building un po’ scoloriti. Mentre i quattro diciamo ragazzi avevano optato per un escursione all’Amber Fort, dove erano riusciti a farsi turlupinare  chi comprando improbabili pashmine, chi dicasi antiche miniature su alabastro, noi due donne, che a Jaipur c’eravamo già state, avevamo preferito  un tour di negozietti; la stilista per fare ricerca prodotto,  che è poi anche una scusa per fare acquisti, e io altrettanto, ma per solidarietà. No, diciamo la verità, perché non resisto agli acquisti, specie in India. Da traveller smaliziate, ci eravamo  fatte tradurre per iscritto, in Indi, gli indirizzi. Ma non era bastato. Il calvario era iniziato col primo tuc tuc, perché i tuc tuc wallah  sembrano essere tarati sulle zone più turistiche, e ignorano i posti fighetti, fuori dalle rotte abituali. Ma gli Indiani, e lo dico sempre con rispettoso affetto, sono un po' come i Napoletani. Gli dispiace lasciarti senza una risposta anche quando non ce l'hanno. Quindi se la inventano. E ti mandano dalla parte opposta, ma molto amorevolmente!

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(I palazzi di Jaipur       foto di Gianni Viviani)

Dopo un’ora e mezza sul maledetto, traballante e sputacchiante tuc tuc, dopo aver chiesto aiuto ad un buon numero di uomini, incluso receptionist di alberghi che avrebbero dovuto sapere il fatto loro, lo avevamo trovato, insperato,  nella  più sveglia commessa di un negozio. Mi si perdoni il rigurgito femminista, ma la santa donna aveva fatto l'unica cosa sensata! Aveva cercato su Google Map.  Dopo averci ri-indirizzato sui nostri passi, fatto a piedi un chilometro e mezzo,  una volta arrivate a destinazione, grande delusione.  Scazzate e impolverate, avevamo scoperto che il negozio era del tutto indegno di nota e del nostro impegno. Preso l’ennesimo tuc tuc e il solito vagare a cacchio, eravamo poi riuscite a farci portare al Café Palladio, un posticino stilé e - qui mi vergogno molto a confessarlo -  a misura di Condé Nast Traveller, che di “sinistra”, il che talvolta può essere sinistro,  aveva ben poco, ma dove ci siamo potute rinfrancare anima e corpo con un buon tè speziato.

In quanto a Jaipur, si sa, le attrazioni non mancavano: l’Hawa Mahal o Palazzo dei Venti, icona imperdibile, anche perché ci si passava davanti per forza, imbottigliati nel traffico; il suddetto Amber Fort, il Palazzo di Jaipur ex magione reale ora museo, la magnifica Patrika Gate, un merletto color rosa confetto. E ovviamente il Bazar, con le sue botteghe di arazzi e tessuti, di miniature e gioielli, luogo di lavori umili e artigianato squisito, dove piccoli omini magri applicavano la loro maestria a mestieri tramandati da secoli.

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(Raj Mandir movie Theatre. Lo schermo                   foto di Gianni Viviani)    

Ma nessun sito, tra le dieci imperdibili cose da fare a Jaipur, ci aveva preparato al Raj Mandir Movie Theatre,  sebbene non ricordi come sia apparso sulla mia strada, forse il suggerimento di un altro amico romano. Posso solo dire: ne valeva la pena. Un luogo incredibile, un trionfo di kitsch, descritto a forma di meringa, personalmente non mi sembrava. Mi sembrava, piuttosto, come il set di un film di Disney, dove mi aspettavo di veder spuntare quei buffi personaggi da Mago di Oz.  Costruito nel 1976, in uno stile Art Deco,  al quale sarebbe giusto aggiungere  la parola Fantasy, pareva disegnato da un architetto in trip da LSD, che non aveva badato a spese in fatto di fasti. Enormi lampadari di cristallo, nicchie specchiate, scalinate illuminate, ogive merlate, una hall di Hollywoodiana grandeur in un tripudio di rosa e celeste, un auditorium  con pareti e plafone ricoperti da drappeggi in vetro opaline, illuminati con un susseguirsi  pirotecnico di luci bluette, carminio, ametista,  smeraldo. 

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(Rosa Jaipur                   foto di Gianni Viviani)


Insomma, un posto da sballo. Che non potevamo certo mancare, attratti per di più dalla locandina del film in programmazione, un "Tiger" qualcosa, un filmone d'azione, dove il bolso eroe di turno, la Tigre in questione, era una specie di James Bond mono espressivo, pompato a steroidi, e sua moglie un pezzo di ragazzona tutta curve  e pugnace. Combattevano in tandem contro  dei cattivoni simil Isis. Dei bestioni in total look nero, che erano riusciti a conquistare non so cosa, non so dove e  avevano pure preso in ostaggio delle polpose infermiere mussulmane, poi costrette a curare il capo cattivo,  un bel ragazzone ferito da una pallottola.  Capo che era, sì, un feroce integralista, ma anche tentato dai piaceri della carne e dagli occhioni da gazzella della caposala. Dato che la mappazza durava 2 ore e 40, era  pure in Hindi, senza un sottotitolo chessò in inglese,  ma soprattutto se la menava senza i canti e i balli Bollywoodiani sui quali avevamo sperato, eravamo usciti al primo tempo. Con grande rammarico di J e M, che però non me l’avevano raccontata giusta.  Tutto quell’entusiasmo per un action movie, dai.  Credo che il nostro pingue e pasciuto eroe avesse colpito anche loro.


*MANUELA CASSARA’ (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità  anche sul resto) 

*GIANNI VIVIANI (Milano 1948, fotografo, nato e cresciuto professionalmente con le testate del Gruppo Condè Nast ha documentato con i suoi still life i prodotti di molte griffe del Made in Italy. Negli ultimi anni ha curato l’immagine per il marchio Fiorucci. Ha anche lavorato, come ritrattista, per l’Europeo, Vanity Fair e il Venerdì di Repubblica. La sua passione più recente sono le foto di viaggio)


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