Islanda boreale, dove le città profumano / 2
di MANUELA CASSARA' e GIOVANNI VIVIANI*
Procediamo verso est, con meta il Parco Nazionale di Skatafell. Sarà deformazione professionale, ma il paesaggio sembra disegnato per fare contento Armani. I colori sfumati, neutri delicati, terre polverose, grigi azzurrati, mi ricordano i suoi tailleurini. Sono affinità che vedo solo io, probabilmente. Il ghiacciaio omonimo è enorme, si estende per decine di chilometri, ci si arriva a ridosso e, volendo e fisico permettendo, ramponi ai piedi, doverosamente accompagnati, si può avere un contatto ancora più ravvicinato. Posto affascinante, con la natura che si risveglia, con la flora rinata, i giovani ruscelli gorgoglianti, il cielo mutevole. Con i miei racconti irriverenti, forse, ho dato un'idea sbagliata di questo paese che ha un suo magico, solitario, selvaggio splendore. E due parole sulla Laguna di Jökulsárlón, dove gli iceberg sembrano diamanti grezzi incastonati nel lago azzurro. Gianni se ne innamora e, rapito dai bagliori, perde la trebisonda e con essa l’equilibrio, danneggiando con un graffio il suo obiettivo preferito.
(Jökulsárlón foto di Giovanni Viviani)
Si risale verso oriente, ormai a metà strada
del nostro giro. Tappa a Hofn, un porticciolo che vanta le migliori
langoustines di tutta l’Islanda, cosa che certifico. Risalendo incontriamo il
colore. Man mano che diventano più isolate, le fattorie sparse nel nulla si
colorano di giallo, arancione, rosso e bluette. Ho il sospetto che si tratti di
un escamotage per riuscire a tornare a casa, quando immersa nel buio artico.
Colore che contagia alcuni sparuti, altrettanto sperduti, apparentemente
abbandonati, paesini, di cui non ricordo il nome, forse perché irripetibile.
Tra questi, degno di nota invece il godibilissimo Seydifjordur, trovato in
fondo al profondo fiordo a ridosso delle montagne innevate. Una deviazione cercata
per fotografare la sua rainbow road. Casette di marzapane, street art, pub e
ristorantini, tutto è colorato perché il paesotto è rifugio di artisti, che lo
hanno decorato. Consigliato.
Si prosegue per arrivare a Mytvan, dove pernotteremo. Deviazione farraginosa sull’unica strada aperta, per la cascata di Dettifoss, descritta dalle guide come imperdibile. Mi dispiace ma solo Iguaçu in America latina, a mio avviso, vale la definizione “ imperdibile”. Dettifoss, difatti, la perderemo, causa l’infernale tempesta di sabbia che ci ha accompagnato lungo il ballonzolante detour. Raffiche di vento a 70 km l'ora, visibilità zero, facevano presagire di riconsegnare la macchina tutta scartavetrata. Arrivati al parcheggio, bisognava fare a piedi un chilometro all'andata e uno al ritorno, fino al look out. Dopo aver aperto lo sportello, intabarrata come un tuareg durante il ghibli, con la sabbia che mi entra in tutti gli orifizi possibili, desisto. E con me il fotografo che stringe al seno il suo bene più prezioso. All’unisono facciamo un dietro front immediato fino alla macchina, dove resteremo pavidi e annoiati fino al ritorno dei nostri più eroici amici, i quali, sfidati gli elementi, mano nella mano, controvento, inclinati a 90°, dopo un’oretta e mezza di lotta sono tornati mazziati dalla delusione, per non essere riusciti a vedere nulla di là dal loro naso.
(Seydifjordur foto di Giovanni Viviani)
Essendo la giornata iniziata sotto i migliori
auspici, determinati a continuare a farci del male, sosta a Namafjall, un posto
spettrale ma affascinante, fatto di pozze sulfuree e bollenti, da guardare ma
non toccare. Più che la Luna, potrebbe essere Marte. Con la differenza che
puzza.
Arriviamo in serata a Myvatn, il paese che non c’è,
sferzato da una bora triestina, cosa che ci ha fatto desistere dal programmato
bagnetto ai Myvatn Nature Bath, sulle guide definita la Blu Lagoon del Nord,
alla quale non assomiglia nemmeno lontanamente. Talmente inospitale da
scoraggiare persino i nostri irriducibili amici di cui sopra, molto più stoici
e resistenti al disagio di noi.
Si procede verso nord. Husavik, ci andiamo per
vedere le balene che, secondo le guide turistiche, il locale Museo e i dépliant
dei tanti promotori di tour, dovrebbero affollare, per ingozzarsi di plancton e
krill, le acque dell'ampio golfo di Skjálfandi. Il paese non offre altro e
quel poco era chiuso causa festa nazionale. Quindi è stato con animo fiducioso,
cuore impavido e portafoglio molto alleggerito che, dopo aver vinto le
resistenze dei reciproci compagni di vita ma recalcitranti in tema di
avventure, noi donne siamo riuscite a convincerli a imbarcarci assieme ad altri
speranzosi gitanti: come noi intabarrati in maxi tute rosso/nere che poco
aiutavano la silhouette già penalizzata dai soliti tripli strati di pile,
magliette della salute, piumini e gusci antipioggia e antivento, come richiesto
dal clima e dagli organizzatori.
Si parte col vento in poppa e si arriva
davanti all'isolotto dei Puffin e solo la fede ci fa credere che la miriade di
micro volatili svolazzanti siano gli stessi panzuti pennuti che rallegrano i
vari portachiavi, tovagliolini e strofinacci in ogni souvenir shop
dell'isola. Facciamola breve. Tre ore di mare con onda lunga. Ripeto, io
non soffro; ma gli altri tre, che pur si erano ben impasticcati, durante
il surplace di attesa per avvistare lo schivo cetaceo hanno incominciato a dare
segni di dignitosa sofferenza. Comunque siamo stati ripagati dal freddo infame,
dal rollio sbatacchiante, dagli spruzzi gelati. Possiamo con orgoglio
dichiarare di avere avvistato: 4 spruzzi 4, 3 pinne dorsali 3 e 2 codate. Tutte
appartenenti, io sospetto, alla stessa, compiacente megattera. Di cui non è
rimasta traccia nei miei tentativi di foto col cellulare, causa inettitudine
mia e pochezza qualitativa del suddetto. In quanto al fotografo
ufficiale, aveva altro cui pensare. Non dico di non farla. Noi siamo stati
sfortunati. O forse era troppo presto.
(Namafjall foto di Giovanni Viviani)
Eccoci ad Akureyri. E aggiungo, finalmente! Ero in
astinenza da città, da traffico, da consumismo, da persone. Questa conta 18.000
abitanti, il che per un’isola che non raggiunge i 400.000 abitanti è un numero
importante. Dopo giorni di fiordi, cascate e steppe battute dal vento,
guardiamo con affetto la concentrazione di negozi, shopping Mall, supermercati,
negozi di abbigliamento e souvenir. Molte le librerie, si legge molto in
Islanda. E molte le caffetterie dove la gente s'incontra, si isola, si
rifugia. Ci sono una modernissima sala concerti, un cinema multisala, diversi
ristoranti etnici, indiano, giapponese, un italiano che evitiamo... Una città a
tutti gli effetti, in versione Lilliput, in fondo al fiordo più profondo
d'Islanda, dove riescono ad attraccare le mega navi da crociera, che qui, nel
vuoto totale, appaiono gigantesche. Accogliente, vivace, Akureyri ha un
discreto traffico e persino semafori. Semafori molto romantici! Il rosso è a
forma di cuore. E’ gentile, è carino, è rilassante guardarlo mentre si aspetta
il verde. Chi l’avrebbe mai detto dai discendenti dei rudi vichinghi!
(Semaforo a Akyureri foto di Giovanni Viviani)
Sempre più a Ovest, ci dirigiamo verso Kirkjufell, la montagna più fotografata dell’Islanda, famosa anche per il suo ruolo in Game of Thrones. Non siamo dei fan, ma quel cono pizzuto che s’inerpica su un piccolo promontorio fa la sua drammatica figura. Ci spingiamo oltre, verso il nostro hotel che, ancora una volta, è perso nel nulla, con vista sul nulla perché non si vede nulla, essendoci un nebbione padano. Dietro le costruzioni a chalet dovrebbe esserci Hellisandur, la montagna descritta da Jules Verne nel suo “Viaggio al centro della Terra”, luogo pare di grande energia cosmica, che noi poveri di spirito non captiamo. Andiamo sulla fiducia. Dopo il check in, ci mettiamo alla ricerca dell’Arco di Arnastapi, meta del viaggio, seguendo ingenuamente le indicazioni del navigator, che non ha proprio idea di dove si trovi ma non lo ammette, e che ci fa girare in tondo tra i nostri corali smadonnamenti. Il bello è che l’Arco Perduto era lì, è sempre stato lì, davanti al nostro naso. Data la nebbia non potevamo saperlo, ma bastava andare diritti, uscendo dall’albergo. Il luogo è spettrale, ha una sua possente magnificenza, si staglia in un mare fragoroso, pauroso, tra le urla delle onde e le grida d
ei
gabbiani. Ma come sempre quello che conta è il viaggio, non la meta.
La componente femminile del tour aveva
deciso di trattarsi bene, il nostro ultimo giorno. Di trattarsi alla grande. Di
concedersi il lusso della Spa del Blue Lagoon, che tutti sconsigliano ma che,
per questo, non si può mancare. Anche se è una rapina. Anche se è così
volgarmente turistica. Anche se piovevaaaa, guarda caso! Anche se pioggia è un
termine riduttivo: questa era gelata e portata da sferzanti raffiche di vento.
Solo io, l'altrettanto impavida amica, qualche temerario centinaio di persone -
c'erano decine di pullman carichi di giapponesi, americani e spagnoli - più una
ventina di muscolosi maschioni della squadra di pallanuoto olandese, oltre ad
un folto gruppo di giovani coppiette locali, tutti dotati di bicchieroni di
birra, abbiamo avuto il coraggio di sfidare gli elementi.
(Foto di Giovanni Viviani)
Aiutate da un calice di prosecco
compreso nel pacchetto, sorseggiato mentre la pioggia ci congelava sul cranio
la calotta di balsamo per capelli, spalmata come da istruzioni fornite
all’entrata. Dal collo in giù eravamo immerse in una broda opaca e lattiginosa
a 38°. Piacevole. Va detto. L'esoso pacchetto Premium che c’eravamo
concesse, comprendeva oltre al drink, alla piscina, alla zona relax, alle
pantofoline, all’accappatoio, due trattamenti di bellezza, quelle cose che si
fanno credendoci pure: il primo era una lattea maschera purificante alla
Silica, il secondo ancora più inquietante, una poltiglia verdognola alle alghe
definita miracolosamente anti age. Potevamo solo sperare nel futuro, perché
nell'immediato sembravamo piuttosto due comparse di Walking Dead.
Così, nella nebbia e tra i vapori, ci siamo unite al
girovagare senza meta degli altri esseri dall'aria spettrale. Alcuni
sobri. Altri molto meno. Solo la fede nelle proprietà antisettiche dell’acqua
termale ci ha fatto ignorare i possibili effetti diuretici degli ettolitri di
birra combinata a quelli del freddo. Ma se invece fosse stato proprio quello il
benefico valore aggiunto?
(2 - FINE)
*MANUELA
CASSARA' (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda,
scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le
sue impressioni e ricordi agli amici e sui social.
Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità
anche sul resto)
*GIOVANNI VIVIANI (Milano 1948, fotografo, nato e cresciuto professionalmente con le testate del Gruppo Condè Nast, ha documentato con i suoi still life i prodotti di molte griffe del Made in Italy. Negli ultimi anni ha curato l’immagine per il marchio Fiorucci. Ha anche lavorato, come ritrattista, per l’Europeo, Vanity Fair e il Venerdì di Repubblica. La sua passione più recente sono le foto di viaggio)
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