In viaggio col citrato

di GIANFELICE IMPARATO*

Le tournée, le tournée… Una volta quelle invernali finivano ad aprile o maggio e a giugno si preparava lo spettacolo per quella estiva. Si finiva l’estiva più o meno a metà settembre e a ottobre si ripartiva per l’invernale. Poi, a mano a mano, le tournée estive sono quasi scomparse. Si fa qualche festival e poco altro. Salvo rare eccezioni la prosa è quasi scomparsa, d’estate, dalle piazze dei paesi. Anche d’inverno si gira molto meno. Il pubblico che frequenta i teatri è sempre più rado. La pandemia, poi, contribuirà molto a rendere il teatro una attività del tutto residuale nel contesto sociale. Lo dico con dispiacere, ma non mi voglio certo crogiolare nella mesta nostalgia. Ogni epoca ha le sue caratteristiche e bisogna adattarsi al presente. D’altronde noi attori abbiamo imparato da tempi lontani a mutare per sopravvivere. Anche i virus fanno così, ma noi lo facciamo, credo, da prima di loro. Poi per loro ad un certo punto arriva un vaccino che li fa scomparire. Per gli attori il vaccino non c’è, ma non escludo che qualcuno lo stia cercando.

            Ma torniamo all’argomento principe: i viaggi. E noi si viaggiava, tanto. Gli attori italiani sono attori di giro. Attori di giro: definizione nobilitata per indicare quelli che in epoche più remote erano detti “scavalcamontagne”.

“Vuie che facite ‘sta staggione?”

“Nuie ce menammo p’’e Puglie. E vuie?”

“Nuie facimmo ‘a Sicilia e nu poco d’Abruzzo.”

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   E si partiva. E noi, io e Vincenzo Salemme, partimmo, in quell’estate del 1981, alla volta di Termoli. Noi della compagnia di Luca De Filippo toccavamo varie città in tutta Italia. Studiato il percorso sulla cartina, si andava. In macchina con noi c’era Franco Folli, al secolo Salvatore Esposito, che era l’unico attore della compagnia di Eduardo che era transitato nella neonata compagnia di Luca. Portava con sé la saggezza spicciola e l’umiltà di chi, come lui, aveva cominciato la carriera in una compagnia di “scavalcamontagne”. E non mancava di senso dell’umorismo e di ironia, anche se di rado ne faceva sfoggio.

            Poco più di duecento chilometri. Ma sì, possiamo partire anche dopo pranzo. E così fu. Strade statali. Caldo torrido. L’aria condizionata allora era riservata solo a chi viaggiava con auto lussuose e non era il nostro caso.

            Verifica itinerario.

- Avellino l’abbiamo già passata?”

- No, ma ci siamo quasi.

- Avimmo sbagliato strada. (annunciò freddamente Franco)

- E che ne sai?

- Stanno tutte ‘e case allerta.

Qualche secondo per capire e poi io e Vincenzo ridemmo a denti stretti della fulminea e cinica battuta di Franco che faceva riferimento al recente terremoto. Questo è un piccolo esempio del senso dell’umorismo del personaggio. Aree di servizio non ce n’erano. L’unica sosta la facemmo presso un distributore di benzina. In un angolo del piccolo piazzale c’era una sorta di baracca che, impropriamente, ci fu indicata come bar. Non ci pareva saggio chiedere un caffè e optammo per una bottiglia di acqua minerale. Con calma olimpica il gestore la tirò fuori da un frigorifero, di quelli casalinghi, e ce la servì. Il viaggio riprese e dopo un’ora e mezza circa facemmo il nostro ingresso a Termoli.

            Mancava poco alle sei. Giusto il tempo per cercare un albergo, darci una rinfrescata ed andare in teatro o, meglio, il luogo dove si sarebbe fatto lo spettacolo. La città brulicava di gente. Chi tornava dal mare, chi si rinfrescava con un gelato, chi bruciava le tappe con l’aperitivo. Gli alberghi allora non si classificavano con le stelle. C’erano le categorie. La nostra ricerca cominciò da quelli di terza. Tutti pieni. Il tempo passava e noi, affrontando sprezzantemente l’ipotesi di una maggiore spesa, continuammo la nostra ricerca in quelli di seconda categoria. Tutti pieni anche quelli. L’ansia saliva. Vabbe’, avremmo solo posato le valigie in camera e la rinfrescata ce la saremmo data nei camerini. Non fummo tanto eroici da spingere la nostra ricerca negli alberghi di prima categoria e passammo, pragmaticamente, a quelli di quarta. Dopo un paio di tentativi andati a vuoto, il silenzio che l’angoscia aveva prodotto nella macchina fu interrotto dalla voce di Franco che con una intonazione da meditata sentenza disse: “Guagliu’, nun ce sta niente ‘a fa’, ce vo’ ‘o citrato.”


La curiosità per la frase sibillina non l’ebbe vinta sul fastidio che aveva provocato interrompendo la ricerca di una soluzione al problema. Poi, per tenerezza verso il vecchio compagno, non ricordo se io o Vincenzo gli demmo la necessaria sponda per completare quella che credevamo fosse una delle sue battute e gli chiedemmo che c’entrasse il citrato. E Franco cominciò il suo racconto. Quando girava per paesi e per borghi con la compagnia di “scavalcamontagne”, lui e alcuni suoi colleghi, arrivati sul posto compravano un po’ di citrato, se lo spartivano e se ne mettevano una piccola manciata in tasca. Finito lo spettacolo, si aggiravano per il paese prendendo ognuno una sua strada. E ciascuno, quando vedeva un capannello di persone a chiacchierare oppure qualche bar ancora aperto, o qualcuno che comunque potesse notarlo, prendeva il citrato, se lo metteva in bocca, si accasciava a terra e faceva uscire dalla bocca una schiuma bianca. Veniva soccorso e, naturalmente senza che desse nessun cenno di miglioria, veniva portato in ospedale. Ecco, il letto per la notte era assicurato e anche gratuitamente. Il mattino seguente, dopo un controllo, seppur sommario, il medico li dimetteva. Ora un medico avrebbe ordinato una TAC o una gastroscopia o chi sa cos’altro, ma allora si prendevano con sicurezza la loro responsabilità e dicevano: “Non avete niente, potete andare”. E via verso il treno o la corriera che li avrebbe portati alla piazza successiva.

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Anche se affascinati da questa storia, che sembrava appartenere ad un’epoca lontanissima e invece ci era stata narrata da un suo protagonista, non ritenemmo opportuna e praticabile la tecnica del citrato. La nostra attenzione, durante il racconto, si era fermata. Il tempo no. Bisognava cercare il posto dello spettacolo. Interrompendo chiacchierate o passeggiate a più persone ottenemmo, a mano a mano le indicazioni per arrivare a destinazione. Due chiacchiere tra colleghi.

- Tu hai trovato qualcosa?

- Una pensione, verso la statale per Campobasso.          

- Ma com’è?

-   …Pulita.

            Quando il primo aggettivo è “pulita”, non è un buon segno. Mi venne la voglia di riconsiderare l’opzione citrato. Vabbe’, poi vedremo. Lo spettacolo doveva cominciare e, come dice il buon De Gregori, poggiai la valigia tra la vita e lo specchio.


*GIANFELICE IMPARATO (Nasce a Castellammare di Stabia nel 1956. La sintesi estrema delle sue passioni di una vita sta nella risposta che la figlia Francesca, all’età di sei anni, diede alla maestra che le chiedeva cosa facesse il suo papà: “Mio padre fa il marinaio, il falegname e poi fa anche l’attore”. Scampato al colera del ’73, alla Sars del 2002 e, finora, al Covid 19, è impegnato in campo teatrale, cinematografico e televisivo almeno fino alla prossima epidemia)


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