In Lunigiana, ma sognando la val d'Orcia
di GIUSEPPE CASCIARO*
Ti va bene la Lunigiana?, ho chiesto a mia moglie una ventina di giorni fa, presentandole per la prima volta il viaggio che poco tempo dopo avremmo dovuto affrontare per dare un po’ di senso alle due settimane di ferie da smaltire nel mese di luglio. Lei mi ha guardato un po’ perplessa. “Altrimenti?”, mi ha risposto interrogandomi. Altrimenti – ho ribattuto avendo già pronte due alternative - l’Alto Adige o Venezia. A Venezia siamo stati più volte, conosciamo le calli, i rii e i campielli quasi come le strade del nostro quartiere. “No, Venezia no”, è stata la sua risposta. Allora l’Alto Adige, le ho detto con entusiasmo, proponendole la soluzione da me preferita. Non mi ha neppure risposto: nei suoi luoghi del cuore non ci sono paesi e paesaggi altoatesini. Lo sapevo.
“Ma questa Lunigiana, dove si trova esattamente?”, mi ha chiesto qualche istante dopo. Non era una domanda peregrina, perché neanch’io fino alla metà di giugno ero in grado di collocarla con esattezza sulla carta geografica. Poi un documentario visto in televisione mi ha aperto la porta di quella conoscenza. Toscana, ho risposto sapendo di raccogliere la sua benevolenza. Ma Toscana alta, nella provincia di Massa-Carrara, dove non siamo mai stati: vedremo una zona che comprende anche un pezzetto di Liguria, nello spezzino. Vedrai, ti piacerà. Prevedendo una possibile obiezione, le ho detto che non saremmo stati tutta la settimana in Lunigiana ma avremmo trascorso anche qualche giorno al mare, Portovenere, anzi, un’isoletta di fronte a Portovenere, Palmaria.
(Arezzo foto di Giuseppe Casciaro)
Il mare le ha aperto il cuore. Organizzo tutto in una mattinata: le tappe di avvicinamento, gli itinerari, gli alberghi, i posti da vedere. La valigia è pronta, la macchina fotografica con i due obiettivi (18-105 e 70-300) è nello zainetto che mi accompagna nei viaggi da almeno 15 anni; la busta del “senza glutine” (con pane, crackers e fette biscottate) già preparata. Si parte.
Ad Arezzo arriviamo intorno a mezzogiorno. Un mezzogiorno di fuoco: caldo afoso, il numero di persone per le strade del centro è prossimo allo zero, stranieri un paio (francesi), la Piazza Grande di Arezzo, bellissima senza i banchi del mercatino domenicale, regala il suo disegno e la singolare pendenza ai pochi fortunati che l’attraversano. Il giovane arabo che lavora nell’agriturismo sistema le tagliatelle per il pranzo del giorno dopo. E’ quasi mezzanotte, mia moglie è già a letto, mi accovaccio su una poltrona in giardino ad ammirare il paesaggio notturno della valle sottostante.
L’aria è fresca ma con un maglioncino si sta bene. Ho in mano un bicchiere vuoto, la grappa è finita troppo presto. All’improvviso una voce: vuoi un’altra grappa? E’ il giovane arabo che evidentemente ha già messo a dimora le tagliatelle. Perché no, grazie, gli rispondo. Eccola. Grazie infinite. Con mia sorpresa si siede al mio fianco, sfiorandomi il ginocchio. “Ti dispiace?”, mi dice. No, figurati, gli rispondo. Anche se avrei voluto dirgli: beh, un po’ sì, mi dispiace, sto qui a guardare come se fossi assiso su un trono le luci di Arezzo e i banchi di nubi rischiarati dalla luna piena che passano veloci sulla mia testa, a inspirare l’odore del rosmarino, ad accarezzare un cuscino di lino. Certo che mi dispiace. Anzi no, accomodati.
(Sarzana foto di Giuseppe Casciaro)
Mi racconta la sua storia - che non rivelo nei dettagli – una storia in definitiva molto triste: lui che segue una persona in Italia, l’amore; quella persona lo abbandona, lo rinnega; lui che vive confinato in questo posto da sei anni, estate e inverno, anche quando per mesi non passa nemmeno l’ombra di una capra. Scende nei dettagli: della storia d’amore, della sua vita, del suo paese. Mi dice persino della mamma morta da poco mentre lui era qui, immobilizzato dalle misure anti Covid. E va bene, basta così, penso. Gli dico: grazie, ora devo andare, buonanotte. Ma la frase intera che non gli ho detto è questa: grazie davvero per avermi regalato la tua storia, non ho fatto niente per meritarla ma ora devo andare e spero un giorno di poter ricambiare il tuo altruismo che mi ha fatto scendere dalle nuvole su cui stavo poggiato fino a pochi minuti prima di mezzanotte.
La Lunigiana non è un granché. Lo immaginavo. Pontremoli, la città dove sosto per un paio di giorni, non lascia il segno nel mio cuore di viaggiatore (e men che meno in quello di mia moglie). Per fortuna l’agriturismo che ho scelto ha un buon ristorante e una bella piscina. Oltre Pontremoli cerco conforto in alcuni paesini che dovrebbero rappresentare in profondità questa terra ma poi scopro che tutta la propaganda turistica si fonda sui castelli che costellano la regione. Mi piacciono i castelli. Nel mio paese, a Corigliano Calabro, ce n’è uno bellissimo dove negli anni Sessanta, nel Salone degli Specchi, feci anche una recita scolastica. Indimenticabile.
Ma oggi non mi va di entrare nei castelli della Lunigiana. Quindi dopo un lentissimo giro in macchina a intravvedere manieri senza la minima intenzione di fermarci, torniamo in piscina e alle otto in punto a tavola. Quando viaggio ho un grosso problema, anzi: due grossi problemi. Sono celiaco, quindi non posso mangiare cibo che contiene glutine (l’ho scoperto vent’anni fa); e sono allergico al pesce (fin da bambino), quindi non posso neanche sentirne l’odore. Nel primo caso, se per errore trangugio un pezzetto di pane o un poco di pasta fatti con farina di grano, un paio d’ore dopo l’assunzione comincia la salita verso il calvario: dolori addominali lancinanti e tutto un resto che vi risparmio. Per almeno centoventi, nei casi peggiori centottanta minuti. Poi, pur con difficoltà, torno alla normalità. Non rischio di morire perché le intolleranze in genere non portano al blocco delle funzioni vitali. Negli ultimi vent’anni mi è capitato di stare male (mangiando per errore cibi con glutine) almeno cinque volte.
Nel secondo caso, assunzione di pesce, molluschi, crostacei o similari, la sintomatologia è diversa: respiro corto, labbra puntellate da aghi, sensazione di soffocamento che può sfociare in choc anafilattico. Si può anche (posso anche) salutare per sempre l’amata Terra e i miei cari. Ogni volta che mi siedo al tavolo di un ristorante e presento le mie credenziali alimentari alla persona che viene a chiedere se sono pronto per ordinare, noto un senso di commiserazione, talvolta di pietà nei miei confronti. Vedo occhi che si sgranano (che sfigato!) volti che ammiccano (tranquillo, sei nel posto giusto), altri ancora che lasciano intendere: ma che ci sei venuto a fare qui?
Per fortuna la Lunigiana del secondo giorno non è uguale a quella del giorno precedente. Mia moglie comincia a dare segni di insofferenza. Dice solo: “Non mi sembra proprio granché questa Lunigiana”, ma in cuor suo pensa: ma dove diavolo mi hai portato? Lei è abituata a una Toscana più dolce, quella del senese e della Val d’Orcia, con le strade che ad ogni angolo ti invitano a fermarti, con i paesini che ad ogni sosta regalano sorprese. Oggi andiamo a Sarzana, le dico. Mi guarda come se le avessi detto: Forlimpopoli, Montegiordano, Abbiategrasso o Crucoli. Eh no, mia cara, Sarzana è un gioiellino, perché in realtà sta in Lunigiana ma nella parte spezzina, a ridosso del mare.(Lerici foto di Giuseppe Casciaro)
E’ il 21 luglio. In effetti il paese non ci delude. Siamo accolti da un mercatino, compriamo pure un paio di cappelli di paglia per ripararci dal sole sulle spiagge che verranno (e che mia moglie non vede l’ora che vengano); il paese è pieno di negozietti di artigiani, una bella libreria, si respira il profumo del mare che sta proprio a due passi. E a due passi c’è Lerici, con il suo esercito di giovanissimi bagnanti che approfittano di ogni angolo, di ogni sasso, per stendersi e farsi possedere dal sole.
Torniamo su, verso Nord, di nuovo in Toscana. Stavolta è il tempo di Carrara. Sembra una città fantasma. Sarà pure che è l’ora del pranzo ma non mi era mai capitato di vedere una città così desolatamente sola e vuota (e decisamente poco interessante) all’ora di pranzo. Eh, però ci sono le cave di marmo, dico a mia moglie, adesso ti ci porto (tanto è lei che guida). Al barista che mi prepara il solito decaffeinato chiedo quale sia il posto migliore per osservare le cave. “Vada verso Colonnata”, mi dice. Ma Colonnata, il paese del lardo di Colonnata? (Gli dico proprio così). “Già, proprio quello”. Così ci incamminiamo verso le Alpi Apuane, fra strade strette e rocce che all’improvviso appaiono bianche, come il marmo, il marmo di Carrara.(Una cava di marmo foto di Giuseppe Casciaro)
Sembra che tutto il mondo sia a Colonnata, all’ora di pranzo. Duecento abitanti che – chi più chi meno – sono impegnati a produrre e a distribuire al popolo che arriva fin qui da tutta l’Italia il prezioso lardo. La sua particolarità? Viene fatto stagionare, opportunamente cosparso di spezie, in conche di marmo. Di Carrara, naturalmente. Decine di auto posteggiate ai lati della strada fino a un chilometro dal centro abitato, un autobus di linea fermo in piazza che non può più ripartire perché non c’è spazio per fare manovra. Tre ristoranti e numerose “paninoteche” ospitano il popolo degli amanti del lardo. Di Colonnata. Fatta una “leggera” scorta di lardo (intero e spalmabile) e pancetta, ci incamminiamo verso la strada del ritorno. Potremmo andare a visitare la cava di Fantiscritti, l’unica sotterranea, ma alla parola sotterranea mia moglie ha un sobbalzo. “Vai, io ti aspetto in macchina”. La sua ritrosia per tunnel, caverne e gallerie è ormai nota.
A proposito. Una quindicina d’anni fa la “costrinsi” ad andare in vacanza a Madonna di Campiglio. Un albergo proprio bello, immerso nel bosco, confortevole. Un ristorante niente male, oltre ad avere uno spettacolare centro benessere (compreso nel prezzo). Però, nonostante le comodità, per un paio di giorni convinsi mia moglie a fare delle gite. Lunghe passeggiate… in macchina su strade a volte accoglienti, immerse nel verde e nella natura di quella terra. A volte ostiche, come quel giorno che, senza dirle nulla, decisi che avremmo raggiunto il passo di Gavia, 2621 metri sul livello del mare, sulle Alpi Retiche, prima della Val Camonica.(Colonnata foto di Giuseppe Casciaro)
Uno spettacolo per una buona parte dei 72 chilometri del tragitto. Ma a un certo punto lo spettacolo, da divertente, nel giro di due minuti diventa drammatico. Comincia una salita terribile, con pendenze fino al 16 per cento. Strade strettissime, c’è lo spazio per il passaggio di una sola macchina, s’inerpicano fra tornanti e curve continue; e strapiombi mozzafiato (da infarto) accompagnano la salita verso l’ignoto. E quando incroci una macchina cominci a pregare perché non sai come andrà a finire! Basta, mi vengono i brividi al solo ricordo. A tre chilometri dall’arrivo, il nostro tour infernale si arricchì di un dettaglio per molti irrilevante ma non per mia moglie (e per me). Prima di arrivare al Passo di Gavia, tre chilometri prima, s’incontra la famigerata galleria delle Rocce Nere. Mia moglie rallentò, la caverna non era illuminata, l’imbocco era stretto come la strada fatta fino a quel punto. Mia moglie s’impuntò, si bloccò, fermò la macchina. “No, io là non ci entro”.
Non osai rispondere, anche a me faceva un po’ paura. Cosa vuoi che sia, le dissi dopo un po’, è solo una galleria. Sì, è buia, la strada è stretta ma vedrai, finisce presto. Niente da fare. Scendemmo dalla macchina. Accanto a noi un paio di motociclisti erano fermi per controllare la ruota di una delle moto. Ci guardarono, capirono la nostra difficoltà. “Avete bisogno d’aiuto?”, disse gentile uno di loro. No, no – risposi – grazie. No, è solo che mia moglie (io) ha paura delle gallerie, soprattutto se sono buie e non vuole entrare con la macchina… Non risero, anche se la situazione avrebbe meritato da parte loro una fragorosa risata la cui eco avrebbe dovuto riverberarsi nella valle sottostante. Anzi: compresero la nostra angoscia. “Non vi preoccupate - disse uno di loro - vi scortiamo noi”. Così, con una moto davanti (per seguire una luce in quel vicolo cieco) e una moto dietro (per avere un punto di riferimento nello specchietto retrovisore invece del nulla) arrivammo stremati al Passo di Gavia. Coincidenze.
Torniamo in piscina, a Pontremoli. E’ ancora presto, mi siedo all’ombra e prendo dallo zaino il libro che ho portato con me per questa prima vacanza estiva. E’ un librone, nel senso che è composto da circa 850 pagine e pesa all’incirca 850 grammi: “M, il figlio del secolo”. Ce l’ho da più di un anno, non lo avevo mai aperto. Il segnalibro mi manda a pagina 406, ho già letto più di quattro etti di libro. L’occhiello del capitolo è questo: “Amerigo Dùmini, Sarzana, 21 luglio 1921. (Oggi è il 21 luglio del 2020, esattamente novantanove anni dopo l’episodio narrato da Scurati, e in mattinata sono stato a Sarzana). Il capitolo racconta la mancata resa dei carabinieri – cosa insolita per quei tempi - alla faccia tosta dei fascisti, fino ad allora liberi di fare il proprio comodo.
(Locanda a Palmaria foto di Giuseppe Casciaro)
Il mare, finalmente. L’isola che ci accoglie, Palmaria, ha il volto di ogni isola: selvaggio. La locanda che ci ospita ha il volto di tutte le locande: rustico. Il mare? Freddissimo. La spiaggia? Sassosa. Il panorama? Stupendo. Al ristorante della locanda si mangia pesce, soprattutto. Dopo un lungo conciliabolo con cucinieri e camerieri riesco a mettere insieme un paio di piatti che non contengono né glutine né pesce. Che fatica. Mia moglie invece si diverte. Allora, per primo “Spaghetti alla Giuseppe” (Giuseppe Basso, fondatore della locanda una sessantina di anni fa e ancora attivo tra i fornelli), per secondo “Muscoli ripieni”… Ma alla voce muscoli mia moglie e io ci guardiamo. Muscoli ripieni? Come diavolo fanno a riempire i muscoli? Vado a cercare sul motore di ricerca. M-u-s-c-o… Il suggeritore mi propone Muscoril, l’antidolorifico a cui prima o poi mi affiderò. Sorrido e riformulo la domanda: muscoli cucina ligure. In un attimo l’arcano è svelato. I muscoli, qui in Liguria, sono le cozze. Dettagli.
In un vecchio libro trovato nel corridoio della locanda di Palmaria scovo un fogliettino piegato in quattro. Lo apro. Contiene un paio di frasi. La prima (grafia di una ragazzina). “X Mauro. Tu mi sei entrato nel mio cuore, cosa devo fare?” Sotto la domanda trovo la risposta. Grafia diversa, mano più spigliata: “Mi tieni dentro al tuo cuore e io ti tengo nel mio”. Firmato: Mauro. Una risposta che non dà vie d’uscita.(Portovenere foto di Giuseppe Casciaro)
A La Spezia, in via del Prione, angolo piazza Garibaldi, accanto al fornaio, una mano ha scritto sul muro in stampatello: “I miei nipoti si devono scusare con me”. Immagino il nonno (la nonna), lo zio (la zia), sento il suo dolore per un gesto infame. A Portovenere, tre giovanotti hanno appena finito di mangiare. Sono seduti a un tavolino affacciato sul mare. Portano le mascherine. Strano, a tavola nessuno porta le mascherine. Oltrepasso il ristorante, dopo un paio di minuti torno indietro, ripasso dallo stesso ristorante. Due camerieri sono agitati. Tu vai di là, io salgo per le scale. (I tre ragazzi erano scappati senza pagare il conto).(Il viale di cipressi a Bolgheri foto di Giuseppe Casciaro)
Il ritorno. Dopo la sosta di un giorno e una notte a Castiglioncello, ci avviamo alla conclusione della nostra vacanza. Alle nove del mattino ci mettiamo in macchina, 300 chilometri all’incirca la distanza da casa. Tre ore. Ma invece che a mezzogiorno arriviamo alle nove di sera. Ci fermiamo parecchie volte. Al porticciolo turistico di Rosignano Solvay (quattro euro per quaranta minuti di parcheggio). A Cecina (impressioni: zero). Per fortuna c’è un negozio che vende oggetti per la casa e io e mia moglie ci innamoriamo: di due cuscini e di un tappeto da mettere in giardino. A Bolgheri (impressioni: mille). Il viale dei cipressi che porta al paese (e va be’, Carducci, lo sanno tutti) merita di essere percorso a due all’ora. A Castagneto Carducci. Qui mi innamoro di nuovo ma è un amore che già apprezzo da tempo e che andrebbe tutelato dall’Unesco come patrimonio dell’umanità: il maialino di cinta senese. Faccio scorte di salumi. Anche se queste terre regalano un vino che è certamente tra i più rinomati del centro Italia. A Grosseto (impressioni: zero). A Castiglione delle Pescaia. La lunga salita verso il borgo, il fiatone, l’acqua che non c’è e poi quella meravigliosa vista che ti porta fino all’isola del Giglio. Alle nove della sera, lasciata la macchina in garage e portati in casa i bagagli, mia moglie e io dichiariamo chiusa la vacanza di luglio. Ora è tempo di tornare. A pensare al prossimo viaggio.
*GIUSEPPE CASCIARO (Sono nato il 17 maggio 1960 a Corigliano Calabro, in provincia di Cosenza. Vivo a Roma dal 1979 e faccio il giornalista dal 1981. Lavoro a Repubblica dal 1989, da sempre deskista, uno di quelli che organizzano il lavoro degli altri, senza mai scrivere una riga se non titoli o sommari. Sono caporedattore da 16 anni. Mi piace viaggiare. Ma, come avrete capito, a modo mio)
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