In bici con lei, andando a sud sulla Carretera austral

testo e foto di STEFANO ELMI*

Giungiamo alla fine di una discesa infinita ed a tratti piuttosto ripida, tagliata fra due ali di foresta che pare equatoriale da quanto è verde e rigogliosa. Per due brevissimi tratti la strada risale molto ripida. Mi guardo le gambe e non capisco, è come se fossero ferme. Provo a spingere sui pedali, a far girare le gambe, ma è come se non funzionassero, come se si fosse rotto qualcosa dentro. Non sento niente. Barcollo, ed in qualche modo guadagno la cima. Piove incessantemente da molte ore oramai. Antonio, il nostro amico brasiliano conosciuto alcuni giorni prima lungo la strada, lo abbiamo perso da tempo, ha affrettato il passo per cercare di trovare un riparo o qualcosa di simile, non si sa bene dove.

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Io e Martina ora siamo fermi all’interno di una curva, e deve essere proprio un castoro quello che ci guarda, immagino sconcertato, ma chi non lo sarebbe. Se ne sta con la testa fuori dall'acqua in una piccola palude al bordo della strada. E proprio in quel preciso momento uno scroscio d'acqua fortissimo, molto più del diluvio già in corso da alcune ore, ci travolge. Le gocce rimbalzano sulla giacca e sui pantaloni impermeabili, mentre rivoli d'acqua si infilano fra le pieghe. Quello che sento è solo un rimbombare Ovattato sul mio cappuccio. Sono come sordo. Ci guardiamo, allarghiamo le braccia, e ci arrendiamo. Più forte di così non potrà piovere, pensiamo.

Poco più avanti troviamo una fattoria con pecore, capre, cavalli, mucche ed un alpaca. Infine troviamo La Casona. La locanda ci appare come un miraggio che accoglie viaggiatori infreddoliti. Gettiamo le nostre bici alla staccionata ed entriamo. Facciamo una doccia bollente. Mangiamo quello che offre la cucina. Alla fine di quella giornata abbiamo percorso un centinaio di chilometri di ripio, come chiamano da queste parti le strade sterrate. Ci saremo fermati in tutto forse una mezz’oretta dentro una baracca di legno, dove infreddoliti abbiamo indossato degli indumenti asciutti. Saranno passate sì e no undici ore dalla nostra partenza da Villa Cerro Castillo, di cui almeno nove sotto una pioggia torrenziale.

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Ci scaldiamo alla stufa a legna davanti alla finestra mentre fuori nell’oscurità è ancora diluvio, e proprio in quell’istante riceviamo un messaggio da parte di Antonio Estoy congelato in Bahia Murta”. 

Da San Carlos de Bariloche a Ushuaia sono circa 2.000 i chilometri che abbiamo percorso in bicicletta fra Gennaio e Febbraio del 2019. Il calendario da questa parte del mondo dice che è estate, ma in realtà in Patagonia le stagioni non valgono. Puoi vivere tutte le stagioni anche in un giorno solamente. Abbiamo pedalato sotto il diluvio, talvolta sotto il sole cocente, e spesso contro un vento furioso, tipico di questi luoghi. Ma la bocca costantemente aperta e gli occhi sgranati per lo stupore, nel vedere dietro ogni curva un paesaggio e una natura più maestosi di quelli appena visti, che già pensavi essere i più maestosi in assoluto. E poi quella condivisione intima alla sera dei campeggi improvvisati, scambiando quattro chiacchiere, consigli ed idee con altri ciclo viaggiatori...

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La nostra idea di viaggio era non avere un’idea di viaggio. Avevamo due punti fermi, la partenza e l’arrivo, il resto lo avremmo scoperto sul posto. Avevamo dei luoghi da visitare, ma sul come raggiungerli non avevamo pianificato niente. Anche se in realtà avevamo capito che le opzioni non sono poi molte in questa parte del mondo. Infatti o vai a sud o vai a nord. O percorri la Ruta 40 in Argentina o la Ruta 7 (Carretera Austral) in Cile. La scelta quindi risultava piuttosto limitata, quindi in questa situazione non restava che decidere la direzione: la nostra sarebbe stata costantemente a sud. 

L’idea era anche quella di farsi trasportare da queste strade, che può sembrare senza senso per chi va in bicicletta. Infatti è più facile subirne le fatiche, specialmente su queste strade spaccaossa. In realtà il lasciarsi trasportare significa lasciarsi stupire, avere voglia di conoscere cosa c’è dietro la curva successiva. Risulta fondamentale non pianificare ogni chilometro. Se c’è una cosa che ho imparato viaggiando in bici è che la strada da percorrere va conosciuta ma non troppo. Meglio non sapere a cosa vai incontro nei minimi dettagli, quando sei con una bicicletta carica di bagagli che pesa quanto una vespa. La cosa fondamentale è essere attrezzati ad ogni evenienza, che sia per risolvere un guaio meccanico, o fisico, o un imprevisto di qualsiasi genere.

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Le uniche certezze sono due borse da 20 litri attaccate ai lati del portapacchi che trasportano la tua casa per più di un mese, borracce d’acqua, delle mappe, un buon libro da leggere, un taccuino ed una penna per raccogliere oltre che i tuoi pensieri ed emozioni anche i consigli delle persone del luogo e degli altri ciclo-viaggiatori provenienti dai posti più impensabili di questo mondo.

Questa volta sarebbe stato diverso. A differenza dei viaggi precedenti qui non sarei stato solo, ma con Martina, la mia compagna. Già da un po’ di tempo avevo in testa quest’idea della Patagonia, e quando iniziammo a parlarne per organizzare l’avventura le avevo chiesto se mai fosse andata in bicicletta prima di allora. Lei prontamente mi rispose di sì, che c’era andata. Bene pensai io, e poi proseguì: “Sì, da bambina intorno a casa”. Perfetto dissi, allora andiamo. Doveva essere un po’ folle anche lei per seguirmi in questa avventura.

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Non so che cosa era quella sensazione che avevo dentro, forse amore, forse incoscienza, molto probabilmente entrambi. Ma mi fidavo e so che quel qualcosa mi diceva che tutto sarebbe andato come doveva.

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Questo viaggio di coppia ci ha messo alla prova ed è stato una costante scoperta per entrambi. Martina, che di mestiere fa l’artista, prima della partenza era come smarrita. Le sue capacità di disegnare ed imprimere su carta le sensazioni tramite gli acquerelli sembravano come chiuse dentro qualche cassetto polveroso. L’inizio poi del viaggio non è stato semplice, infatti alle prese con le immensità dei luoghi e dei paesaggi sudamericani risultava difficile trovare soggetti che stimolassero la sua curiosità. Poi come in quasi tutti i problemi la soluzione se ne sta lì  davanti a te, senza neanche nascondersi troppo. Il suo sguardo si è concentrato sui dettagli, su piccole cose che aveva davanti a sé: una tazzina di caffè in un bar, un vaso di fiori in un ostello. A mano a mano che il viaggio è andato avanti il suo sguardo si è alzato, ha preso coscienza e l’ansia dei grandi spazi è svanita ed ha iniziato a disegnare quello che ci stava attorno. 

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Viaggiare in bici lo considero una metafora della vita. A tutti quelli che mi hanno sempre chiesto: che tipo d’allenamento occorre per fare un viaggio del genere?, ho sempre risposto in maniera elusiva. Talvolta che non sapevo, talvolta che non ci avevo mai pensato, ad altri poi avevo risposto anche sinceramente che non serve nessun allenamento, ed è vietato stancarsi prima di una partenza. Si scopre sempre alla fine di ogni giornata che la forza delle gambe conta fino ad un certo punto, quella della propria testa è la più importante. Sempre.


*STEFANO ELMI (Nato a Barga - Appennino Tosco-Emiliano -  il 4 Luglio del 1982. Ama scrivere e andare in bicicletta, fare trekking e sci-alpinismo. Il suo diario di bordo si chiama scritti maiali.com. Di recente, a seguito di un suo viaggio esplorativo in bicicletta fra Canada ed Alaska, ha scoperto che “In Alaska fa caldo”e ne è nato un libro edito da Ediciclo)

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