Il mistero di Cogozzo

di FABIO ZANCHI*

Cogozzo. Un paese senza qualità, come lo avrebbe definito Musil. A Cogozzo, in effetti, non c’è niente. Eppure…

Questo paesotto di appena un migliaio di abitanti è disteso lungo l’argine maestro del Po, ad appena tre chilometri da Viadana, nella Bassa mantovana, dirimpetto a Brescello, patria di Peppone e Don Camillo, sulla sponda opposta del fiume. A distanza di un paio di chilometri c’è Cicognara. Più avanti, Sabbioneta. Bene. Viadana ha origini antiche, prende il nome dalla famiglia romana di Vitellio, e ha dato i natali a Ludovico Grossi, che i più conoscono come Ludovico da Viadana, per l’appunto, per i suoi “Cento concerti con il basso continuo”. A Viadana c’è anche il ristorante “da Bortolino”, al di là dell’argine, dove si mangia e si beve benissimo, ma questo è un altro discorso. Cicognara è conosciuta nel mondo - sì: nel mondo - per essere la capitale delle scope e dei pennelli (chi mai non ha visto i marchi Tonkita e Cinghiale? ecco, vengono di lì). Sabbioneta tutti sanno che è la “piccola Atene” fondata a fine Cinquecento da Vespasiano Gonzaga, sede del Teatro Olimpico costruito dallo stesso architetto, Vincenzo Scamozzi, che aveva portato a termine il teatro di Vicenza, suo gemello, alla morte di Andrea Palladio. Di lì ci passa pure il 45° parallelo, a marcare la medesima distanza tra il Polo Nord e l’Equatore.

WhatsApp Image 2021-04-09 at 160633 1jpeg

Stretto tra tante meraviglie, Cogozzo porta come unica caratteristica storica quella di essere stato esentato dal pagamento delle tasse, insieme a Cicognara, addirittura dal re longobardo Desiderio: un record, in un Paese come il nostro dove purtroppo prospera il pessimo genere dei furbetti che evadono il fisco. Per il resto, niente. Ma è soltanto apparenza, perché quel paesotto custodisce un segreto, assai difficile da decifrare.


leggi anche:   I FRATELLI GRIMM E COGOZZO

Per me Cogozzo rappresenta un “amarcord” molto preciso e denso. Lì abitavano mia nonna Gina e lo zio Mauro. Lei era rimasta vedova del marito, Gino. Lui aveva perduto la moglie, Rosina, che di mia nonna era sorella. Da cognati, in età abbastanza matura, decisero di mettersi insieme e si costruirono una bella convivenza fatta di rispetto e gentilezza reciproca. Diventarono una bella coppia, ed era piacevole andare a trovarli. Con loro passai un’estate fantastica, nel 1961, all’età di nove anni, che mi portò in una dimensione inedita e affascinante, per me che arrivavo da due anni indimenticabili trascorsi a Roma. Quelli erano gli anni in cui l’Italia stava faticosamente uscendo da un difficile dopoguerra. Nelle mie elementari, i manifesti che tappezzavano i muri delle classi raffiguravano ragazzini che camminavano con le stampelle perché erano finiti su mine e bombe rimaste inesplose nei campi e nelle periferie dopo la guerra. A Cogozzo, nella casa dello zio Mauro, il tempo si era fermato ancor più indietro. La sua era una casa di campagna, poverissima. L’acqua corrente non c’era. Bisognava attingerla in un pozzo, con un secchio che veniva calato con una lunga pertica. Naturalmente in casa non c’era neppure il riscaldamento: l’unica fonte di calore veniva dalla stufa a legna che serviva anche per fare da mangiare.

Accanto all’unica stanzona a pianterreno c’era un locale più piccolo. Quello era il regno di una vecchietta, la “nonna” Dina, tre denti sparsi a caso, un fazzoletto nero sempre in testa, un paio d’occhiali molto spessi, inforcati i quali raggiungeva a stento i venticinque chili di peso. Completamente analfabeta, parlava soltanto in dialetto, e una volta al mese – non si sa come facesse, visto che non era in grado di leggere neppure il calendario – s’incamminava verso Viadana per andare a ritirare la pensione, magra come lei. Tutto il suo tempo lo passava a tirare la pasta. Una volta alla settimana faceva il pane e lo portava al forno in fondo al paese perché fosse pronto per il pranzo domenicale. Quel pane durava tutta la settimana, custodito in una madia che emanava uno dei profumi straordinari di quella casa.

WhatsApp Image 2021-04-09 at 160633jpeg

In realtà la stanza più profumata era quella che c’era al primo piano, cui si accedeva dalla camera da letto. In quella veniva raccolto il granturco, accanto al mucchio di mele campanine, che per mesi addolcivano l’aria.

Mauro era uno straordinario contadino. Ha avuto due asini, la prima si chiamava Lollobrigida, poi venne Romeo. Gli servivano per raggiungere un piccolo campo che aveva un po’ distante da casa, dove coltivava frumento e curava una vigna di uva ancelotta, per produrre un lambrusco che non aveva uguali per bontà. Con il carretto, poi, andava a caricare l’erba che falciava a mano sull’argine maestro, per dar da mangiare alle tre vacche cui riservava cure straordinarie. La stalla era pulita come non ne ho mai viste altre. Mauro si alzava prima dell’alba, ogni giorno. Scaldava un secchio d’acqua e con quello si presentava alle sue bestie, che lo aspettavano frementi, riconoscendone il passo. Prima della mungitura lui lavava le code e le mammelle con l’acqua tiepida e un po’ di sapone Palmolive in polvere: lo stesso che mia nonna, al sabato, usava per farmi il bagno nella tinozza, nella stalla, se c’era freddo, oppure sull’aia, al sole. Quelle cure, e soprattutto il massaggio con l’acqua tiepida provocava un piacere tale alle vacche, che il latte cominciava a fluire dai capezzoli prima ancora della mungitura vera e propria. Uno spettacolo.

Le stesse attenzioni che riservava alle sue bestie, Mauro le usava per il vino. La notte non sembrava mai dormire. Se cambiava la temperatura, se arrivava un vento particolare, oppure aumentava l’umidità, lui si alzava dal letto a qualsiasi ora e andava in cantina. A seconda del suo sapere, profondo e infallibile, ricopriva i due tini con la sabbia, oppure ci stendeva sopra delle coperte di lana, o li faceva respirare scoprendoli, come fossero esseri viventi. Il risultato era duplice: lui a fine stagione imbottigliava un lambrusco straordinario, che anni dopo ho assaggiato soltanto da un altro contadino incredibile, Toschi di Pomponesco, lo stesso che riforniva Cesare Zavattini. In secondo luogo, quel vino faceva letteralmente impazzire il vicino di casa di Mauro che non è mai riuscito a raggiungere gli stessi risultati, pur avendo le viti accanto a quelle dello zio e avendone spiato tutte le operazioni nella speranza di carpirne i segreti. Ma non c’è mai riuscito.

cogozzoJPG

Stavo bene in quei mesi passati in quella casa. C’era un bel clima. Quello che altri avrebbero letto come segno di povertà – l’assenza dell’acqua corrente, la mancanza di un bagno (si andava nel campo lì vicino, oppure nella stalla), l’unico lusso era una grossa radio con cui Mauro, prima di addormentarsi, si godeva le opere liriche, che lui sapeva a memoria – per me era segno di ricchezza. In quella vacanza ho imparato quasi tutto quello che so della natura, della campagna, degli animali. Perché Mauro era un grande maestro. Di poche parole, come tutti i grandi. E la sua lezione dura nel tempo.

Cogozzo resta legato a quei ricordi. Ma c’è dell’altro. Anni fa mi capitò di visitare i Musei vaticani. Arrivato alle Gallerie delle carte geografiche, puntai dritto a quelle della Lombardia. Una, in particolare, mi colpì: quella del Ducato di Mantova. In basso, dove il Po disegna una specie di “V”, una scritta: Cogozzo. Proprio quel borgo, nominato al pari di altri paesi ben più importanti. La carta risale alla fine del Cinquecento. Quale sia la ragione che ha indotto l’autore dell’affresco a una citazione tanto precisa è un mistero, almeno per me. Ma mi piacerebbe scoprirlo, prima o poi.


*FABIO ZANCHI (Da piccolo guidava trattori e mietitrebbie. Da giornalista, prima all’Unità e poi a Repubblica, ha guidato qualche redazione. Per non annoiarsi si è anche inventato, con Nando dalla Chiesa e altri spericolati, il Controfestival di Sanremo, a Mantova)

clicca qui per mettere un like sulla nostra pagina Facebook
clicca qui per rilanciare i nostri racconti su Twitter
clicca qui per consultarci su Linkedin
clicca qui per guardarci su Instagram