Il lupo mannaro di Arcavacata

di MATTEO COSENZA*

Una notte poco fa, mentre lasciavo la Sila e mi avviavo verso la discesa per Crotone, all’improvviso ho visto una palla luminosa, più gialla che bianca. Ho pensato a un lampione più o meno lontano ma mi è sembrato strano perché a vista d’occhio non c’era una luce che fosse una, solo una fitta e indistinguibile selva scura di centinaia di migliaia di alberi. Ho fermato l’auto e ho osservato meglio. Era la luna. Un’apparizione folgorante, quasi un sole sonnacchioso. Sono rimasto fermo a lungo. Ho anche abbassato i finestrini, per ascoltare il rumore di fuori. E invece neanche un fruscio, una notte calma, eppure la montagna respirava anche se non lo dava a sentire. Non nascondo che provavo un certo timore. Il buio, la solitudine, la mancanza di luci compresi i miei fari nel frattempo spenti, e il sapere che lì attorno a me c’era vita, c’erano animali, c’erano sicuramente i lupi. Ho cercato di distrarmi armeggiando con lo smartphone con il quale, in mancanza di una macchina fotografica, mi sono arrangiato per fare qualche foto: non perfette ma bastevoli per immortalare un’emozione. E poi, nel buio appena rischiarato dalla luna, un po’ pastore errante, ho ripensato ai lupi e al lupo mannaro, perché da quelle parti ce ne sono di veri e c’è anche quello della leggenda.

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(foto di Matteo Cosenza)

Ce ne dovevano essere anche a valle, dall’altra parte rispetto alla mia direzione di marcia, al termine della vallata di Cosenza e Rende, laddove inizia la collina di Arcavacata. Cinquant’anni fa, dopo sette mesi di guerra urbana conclusa solo con l’arrivo dei carri armati, alla rivolta di Reggio Calabria che rivendicava il capoluogo della nascente Regione si pose fine con il compromesso del “pacchetto Colombo”, poi rivelatosi un fallimento salvo che in un punto: non a Reggio o a Gioia Tauro ma proprio lì su quell’arida collina rendese-cosentina nacque l’Università della Calabria, un innovativo campus concepito e realizzato da Beniamino Andreatta che raccolse attorno a sé il fior fiore dei saperi di quel tempo.

Un’università nuova in tutti i sensi dove gli studenti soggiornavano e alla quale accorsero di buona lena professori di valore da ogni parte. Nella temperie di quegli anni Settanta non fu una sorpresa che i fermenti del paese, anche quelli tragici del terrorismo, si avvertissero anche in questa cittadella senza confini, un ponte della regione più dimenticata e dolente verso il mondo. E così ci furono attentati e si immaginò che un ruolo lo avrebbe potuto avere il calabrese Franco Piperno, allora leader di Potere Operaio, ma non fu indifferente il fatto che questa era anche la terra di Giacomo Mancini, il più garantista dei politici italiani per di più anche sfiorato in famiglia dal vento brigatista. E così nella notte tra il 27 e il 28 giugno 1979 il generale Dalla Chiesa dispose un blitz che portò all’arresto di docenti e “fiancheggiatori”. Mi toccò andare lì per “Paese Sera” e scriverne.

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Ventisette anni dopo, appena arrivato in Calabria per restarvi a lavorare per un bel po’, ritornai quasi subito in quel luogo. In un’affollata aula dell’università personaggi importanti presentavano un libro. Lo aveva scritto un professore che nei cenni biografici si definiva “un lupo mannaro”. Era stato docente all’epoca del blitz, ora era il bibliotecario della Normale di Pisa. Si chiamava Renato Nisticò e il libro si intitolava “L’arcavacante”. Un romanzo che con partecipazione raccontava quel lontano periodo, mai chiarito nella sua effettiva verità, e faceva riecheggiare l’ululato dei lupi – i terroristi o presunti tali? – che l’abitavano e insidiavano. L’incontro iniziò con un po’ di ritardo perché mancava un relatore e da una bella signora che mi sedeva affianco sentii dire: «Nessuna sorpresa, la rivoluzione non si sa mai quando arriva». E da un altro vocio appresi che forse il lupo mannaro era proprio lui, Franco Piperno, e non l’autore del libro.

Renato mi piacque e gli chiesi di scrivere per il mio giornale. Lo fece con regolarità. Poi una pausa. Infine, quando stavo per sollecitargli di uscire dal letargo, mi arrivò un nuovo pezzo. Lo lessi e lo rilessi. Sentivo che c’era molto di non detto, avvertivo una strana sensazione ma non ebbi il coraggio di chiedergli una spiegazione. Chiamai suo cognato, Mimmo Cersosimo, professore di economia all’Unical, e scoprii che non mi ero sbagliato: c’era un problema, un problema serio, Renato aveva la Sla.

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(Renato Nisticò    foto il Tirreno)

Ma il lupo calabrese per quanto mannaro fosse era un animale fiero, non si arrese alla malattia e per tutto il tempo che gli è rimasto da vivere l’ha vinta viaggiando, pur restando fermo nella sua Pisa, più di quanto possa fare un vacanziere incallito. Perché dalla prigione della sua sedia superaccessoriata ha continuato a lavorare e a vivere. Attorno a lui si formò una comunità di amici, familiari, studenti, colleghi, che ha assecondato i suoi desideri e le foto che lo ritraggono, felice sulle spiagge toscane o sulla vetta del Monte Serra, raccontano a meraviglia la sua tenacia e la curiosità.

“Caro Matteo”, quel giorno quasi mi veniva un colpo. Era lui, mi parlava attraverso Messenger. Poche parole perché, compresi in seguito, per lui era un’impresa disumana trasferire le parole una lettera alla volta attraverso impulsi meccanici. Ma seguirono altre parole, anche per giustificare, figuriamoci, il silenzio, “…sarà stata la pigrizia o l’invadenza della malattia”, e poi “una domanda a bruciapelo: “Sai di qualche giornale di carta o online che potrebbe ospitare qualcuno di questi pezzi irrituali provocatori ma anche divertenti”.

Chiamai il direttore del “Tirreno”, Luigi Vicinanza, e così Renato riprese anche a scrivere per un giornale. Lentamente, faticosamente, mentre continuava ad attraversare mondi e paesi con la mente e con il cuore e spesso anche con il suo corpo imprigionato. Gli mancò un viaggio: volare con il parapendio, liberando nel cielo e sul mare della Versilia il suo corpo fragile e il suo animo irriducibile. I suoi amici non fecero in tempo a prepararlo e lui se ne andò. Io l’ho ritrovato nel buio della Sila, al lume della luna. Poi, ho rialzato i vetri, messo in moto e sono ripartito. Ciao Arcavacante.


*MATTEO COSENZA (nato nel 1949, è un giornalista. Napoletano di Castellammare di Stabia, meridionale con un quarto calabrese, italiano a 24 carati, nonostante tutto europeo, ospite transitorio della Terra)


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