IL FOTORACCONTO - Procida, sull'isola Capitale godendosi l'inverno

foto e testo di TINA PANE*

Sono sbarcata a Procida in una luminosa giornata infrasettimanale di fine febbraio, scendendo da un traghetto semivuoto partito da Pozzuoli solo mezz’ora prima, una traversata troppo breve per lasciarmi alle spalle le preoccupazioni del quotidiano ma sufficiente a rasserenarmi un po’. Questo hanno le isole - ho pensato - che stare in mezzo al mare per raggiungerle già scava la distanza tra sé e i propri demoni.

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Solo dopo ho scoperto, leggendo un post della pagina Facebook Procida 2022, che tornavo sull'isola

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a un mese esatto dalla sua proclamazione a Capitale Italiana della Cultura, e mi è sembrato un segno, insieme al sole e all’aria tiepida, più che primaverile, che hanno accompagnato il mio soggiorno. L’isola mi ha accolto in tutto il suo quieto e laborioso splendore,

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le piccole strade poco trafficate, molti lavori in corso e solo voci di inflessione locale: mi sono quasi sentita un’intrusa, come mi fossi presentata senza invito a casa d’altri. Ma ho la coscienza pulita dell’amica di vecchia data, non sono una di quelli saliti al volo sul carro del vincitore, quest’isola è un posto dell’anima e in essa mi rispecchio, per beltà e difetti.

Così, dopo essermi concessa una frittura di paranza alla Locanda del Postino, unico ristorante aperto alla Corricella,

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il posto più caldo e più fotografato dell’isola, ho messo gambe in spalla e ho cominciato a camminare, come se non la conoscessi. E forse era proprio così, perché è un’altra cosa l’isola d’inverno, un’altra narrazione.

In una controra quasi desolata sono andata a Pizzaco per trovare un’insolita inquadratura della Terra Murata

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e l’abbraccio immobile e fermo della baia della Chiaia.

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Poi mi sono inerpicata sulla Panoramica, tra agavi gigantesche, aree giochi per bambini e il profilo di Capri di fronte. Qui sotto c’è la baia del Carbonchio, che tutti dicono sia il più bel mare dell’isola, da andarci con la barca o con un sentiero scosceso, ma ho preferito respirare nel dipinto di questa panchina solitaria.

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In giorni e con luce diversi sono stata in pellegrinaggio su tutte le spiagge, a cominciare dalla più turistica, e accessibile, quella della Chiaiolella

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consumata dalle mareggiate e ingombra di rami spezzati e altri relitti portati dall’inverno, e a Pozzovecchio

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in una mattina, l’unica, di luce grigia e però splendente, ma più che la spiaggia scrutavo l’orizzonte e questa barchetta

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sospesa in mezzo al mare. Ho percorso tutta via Solchiaro

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dal suo inizio affollato di case colorate e linde, con spruzzi di verde e panni stesi, fino alla sua punta estrema, dove la strada, che gira come un circuito, da un lato è un muro rosa

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da cui sporgono alberi e fichi d’india e dall’altro mostra Ischia.

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Ho visto gatti

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acciambellati sui muretti al sole e limoni

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protesi verso il cielo, sentito cani abbaiare da dietro i cancelli

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delle ville e invidiato  un uomo

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che curava il suo minuscolo orto. Ho visto la merce

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di un negozio lasciata sulla strada incustodita nell’intervallo di chiusura e sbirciato dentro al cimitero

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ma senza entrare a infastidire i morti. Ho trovato chiusa la scala che scende al faro

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e provato pena per un relitto

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alla Marina. Ho fatto colazione

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ogni mattina con la lingua di bue e ammirato come un’opera d’arte un portone tavolozza. Ho visto i volontari

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ripulire le scale di Callìa e due eleganti calle

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ingentilire un muro.

Ho vissuto come un regalo questi giorni generosi di luce e di aria profumata, confortata dall’aver trovato l’isola intatta e senza grilli per la testa, almeno ora. Posso solo sperare che si conservi così anche quando inizierà a girare sulla giostra come Capitale. Una cosa però la so per certa, che non dipenderà solo da lei, e dalla gente sua, mantenersi intatta, ma anche dai visitatori. Mi sono tornate in mente le parole di Agostino Riitano, direttore del progetto che è valso il titolo all’isola, in una sua intervista: “Venite tutti a Procida,  

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vi aspettiamo. Ma venite in ascolto, venite in punta di piedi”. Solo così la si può apprezzare.

 

 * TINA PANE (Napoli, 1962. Una laurea, un tesserino da pubblicista e un esodo incentivato da un lavoro per caso durato 30 anni. Ora libera: di camminare, fotografare, programmare viaggi anche brevissimi e vicini, scrivere di cose belle e di memorie)

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