Il commissario Martini, uno qualcuno e centomila

Il 18 febbraio 2021 Alfredo Martini avrebbe compiuto cento anni. Un vero mito circondato dall’affetto di appassionati e non. Toscano purosangue è stato corridore professionista con dieci vittorie in carriera, ma anche direttore sportivo e impareggiabile commissario tecnico della Nazionale dal ’75 al’97, anni nei quali ha ottenuto – tra l’altro – sei titoli mondiali. Ma (ricordava) è stato anche garzone, operaio, vigile urbano, titolare di un negozio di abbigliamento, partigiano. Per chi lo volesse scoprire foglieviaggi segnala tre libri: l’autobiografia La vita è una ruota, e L’ultimo Giro (tutti e due con Marco Pastonesi) e – appena uscito – I silenzi di Alfredo Martini di Marco Quercioli


di MARCO PASTONESI*

Quella volta che – alle Strade Bianche - ci incontrammo a Buonconvento, i corridori curvavano a destra per inerpicarsi su uno strappo in salita, noi proseguimmo diritto per tuffarci in un alimentari dove comprammo pane e mortadella, perché la mortadella, quando è buona, è di gran lunga meglio del prosciutto.

Quella volta che – alla Coppi e Bartali – ci trovammo sul Barigazzo, i corridori proseguivano diritto per scollinare e poi tuffarsi verso Pievepelago, noi girammo a sinistra per entrare in una trattoria che forse non aveva conosciuto tempi migliori e ordinare un primo, perché all’ora di pranzo un primo basta e avanza, soprattutto in un giorno di corsa.

Quella volta che – alla Tre Valli Varesine – ci incrociammo alla partenza da Varese, e ci confidammo come sono belle le partenze, pullman e camper che trasformano il centro in un campeggio e cambiano i sensi unici in aree circensi, il popolo che invade le strade, gli appassionati che circondano i corridori, tra fotografie e autografi, sguardi innamorati e pacche affettuose, in un’atmosfera effervescente, quasi elettrica.

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Quella volta che – al Costa degli Etruschi – ci vedemmo a Donoratico, zona arrivo, c’è un posticino, mi dicesti, per lui c’erano sempre un tavolo riservato e dedicato e una tovaglia a quadretti bianchi e rossi, e ci affidammo alla loro tradizione e al loro affetto, al rosso della casa e alle olive della campagna, intanto si parlava di Bartali e Coppi, di Hemingway e London, di Nibali e Visconti, di Berlinguer e Hack.

Così, quella volta che mi annunciarono la sua morte, pensai a quelle quattro volte e a tutte le altre volte, al privilegio di quelle tavole condivise, di quei marciapiedi comunitari, di quelle atmosfere partecipate, di quelle parole trasmesse, di quei gesti scambiati, di quella passione moltiplicata che è la bicicletta, di quelle tappe vissute e di quelle strade battute - insieme - che è il ciclismo.

Oggi, 18 febbraio 2021, Alfredo Martini compie (grammaticalmente bisognerebbe scrivere: avrebbe compiuto) cento anni. E se a respiri e battiti non c’è più da quasi sette, invece a parole e ricordi, a eredità e testimonianze, è come se fosse qui e là, ogni volta che una ruota gira, ogni volta che una gamba risponde, ogni volta che il culo brucia (me brusa ‘l cu, confidò Luigi Ganna al cronista della “Gazzetta dello Sport” al termine del vittorioso Giro d’Italia d’esordio, nel 1909). Perché Martini è (è stato?) l’unico a interpretare il ciclismo come corridore, direttore sportivo, commissario tecnico, presidente onorario della Federazione ciclistica italiana, e anche come ambasciatore, missionario, cantore, autore. Ci sarebbe altro, ma già questo basta e avanza per sbaragliare il campo.

Martini, per me, è stato più di Bartali e Coppi e del suo amico Magni. E’ stato il Novecento, quello uscito a pezzi e macerie, a ferite e lacerazioni dalla Prima guerra mondiale e sopravvissuto, rinato, decollato, imploso e sempre risorto. E’ stato il ciclismo, “uno sport diverso da tutti gli altri – spiegava Martini facendosi improvvisamente serio -, perché gli altri sport, dal calcio alla pallacanestro, dalla pallavolo al rugby, sono giochi, invece il ciclismo è un esercizio, un esercizio duro, come è duro scendere dalla Marmolada con le mani ghiacciate, come è duro arrampicarsi sullo Zoncolan con le gambe legnose, come è duro galleggiare sul pavè in un terremoto muscolare e metallico, come è duro resistere sullo sterrato fra i mille aghi di sassi e ghiaia”.

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(La cerimonia in toscana per i cento anni dalla nascita di Alfredo Martini           foto da Federazione ciclistica italiana))

Aveva il dono della leggerezza, Martini. Così, per spiegare la vita monastica dei corridori, raccontava di quando Costante Girardengo rapì Aldo Bini, tacciato di essere un donnaiolo, più pronto a correre dietro le gonne delle donne che alle ombre degli avversari, e lo blindò nella sua casa in una prigionia attenta e premurosa: “La mattina Girardengo entrava nella camera riservata a Bini, scostava con delicatezza le tende, apriva con dolcezza le persiane, lasciava che la luce prima filtrasse e poi illuminasse la stanza, infine si avvicinava al letto del suo allievo e gli sussurrava le prime parole cercando di reintrodurlo lentamente e affettuosamente nel mondo dei vivi. ‘Buon giorno, Aldino’. Pausa. ‘Anche oggi è una bella giornata’. Pausa. ‘C’è il sole’. Pausa breve. ‘E ci aspetta un nuovo allenamentino’. Pausa più lunga. ‘Centocinquanta chilometrini’. A questo punto Aldo Bini, decisamente sveglio, profferiva le prime parole: ‘Lei, commendatore, li chiama chilometrini, ma sono tutti di mille metri ciascuno’”.

Si sarebbe rimasti ore (e il bello è che lo abbiamo fatto) ad ascoltare Martini mentre saltava da Pietro Linari a Franco Ballerini, da Federico Garcia Lorca a Indro Montanelli, da Faliero Masi a Franco Ballerini. Ateo, ma evangelico. Quinta elementare, ma letterato. Comunista e partigiano, ma pietoso e misericordioso con chi aveva sbagliato. Preciso e puntuale, eppure capace di improvvisare. Narratore, ma pronto ad ascoltare. Avere pedalato da gregario lo aiutò a comprendere e perdonare. Impossibile non amarlo. E infatti era amatissimo. Se fosse stato un albero, una quercia (lo scrisse Gianni Mura). Se fosse stato un politico, Sandro Pertini, senza la pipa, ma una sigaretta ogni tanto. Se fosse stato una bicicletta, da corsa, ma in uno sgabuzzino adibito a ciclofficina, nel giardinetto della sua casa a Sesto Fiorentino custodiva anche altri modelli più cittadini e meno aerodinamici. 

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(foto da Federciclismo)

Oltre al dono della leggerezza, aveva anche quello di saper incantare con le parole. Quella volta alla “La bici al chiodo”, a Campagnola Emilia, una manifestazione annuale di ex corridori che festeggiano chi lascia l’agonismo, tavolate imbandite, mandibole sciolte e gomiti alzati, un gruppo compatto banchettava vociante se non urlante, finché alla prima parola di Martini calò un silenzio quasi mistico, e tutti quanti furono investiti da una solennità, da un orgoglio, da un’appartenenza commoventi. E con leggero incanto, ci mancava solo che indossasse un paramento sacro, fosse stata anche un palmer a tracolla, Alfredo tramandava storie. Una per tutte: “Quella volta che una delegazione di tifosi aretini venne da me per propormi un affare: ingaggiare un loro corridore. ‘E’ forte’, mi dicevano. ‘E’ veloce’, mi giuravano. ‘E poi lei lo ha già visto’, mi confermavano. ‘E poi con lei stiamo tranquilli’, mi confidavano. Ma non potevo ingaggiarlo, la squadra era già al completo. ‘Come si chiama?’, domandai, per prendere tempo, come un pugile che si rifugia in un angolo del quadrato. ‘Topi’, mi risposero. Fu la mia salvezza. ‘Non posso’, li gelai. ‘Ma perché?’, mi chiesero in coro. ‘Perché in squadra ho già Gatta, e gatta e topi insieme’”. 

E ogni storia ne tirava un’altra: “Rocco Gatta, avellinese di Bagnoli Irpino, che da giovane si era trasferito a Càscina, nel Pisano. Portava frutta e verdura al mercato, su un’Ape. Un giorno, quando Ermanno Mioli, giornalista di ‘Stadio’, gli chiese quale mestiere facesse, Gatta rispose, forse per darsi un tono, o forse per dare nobiltà al suo lavoro: ‘Rappresentante di verdure’. Mioli incassò senza capire. Poi venne da me a chiedermi spiegazioni. Gli dissi che da noi si usava girare con una valigetta ventiquattr’ore, dentro una carota, una zucchina e un finocchio come esemplari da mostrare alla clientela. E solo a quel punto Mioli, finalmente, capì”.

Ecco: Martini. Uno, qualcuno e centomila.


*MARCO PASTONESI  (Ha scritto per ventiquattro anni per la “Gazzetta dello Sport”. Si divide tra due passioni: il rugby e il ciclismo. Su tutti e due ha scritto molti libri - tra cui Gli angeli di Coppi, Il diario del gregario, I diavoli di Bartali, con Fernanda Pessolano Attenzione ciclisti in giro. Ha affiancato Alfredo Martini nella scrittura dell’autobiografia La vita è una ruota)

 



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