I guardiani del Muro

di FLAVIO FUSI*                  

Sciagurati! Se qualcuno volesse denunciarci oggi, a mezzo secolo di distanza, siamo tutti lì in quella foto. Tutti con il braccio teso e il pugno chiuso, tutti in posa davanti alla maestosa porta di Brandenburgo, quella con la biga e i cavalli teutonici con le criniere al vento. Dietro – ma proprio dietro – si intravede appena la linea grigia del Muro che divide in due la vecchia e gloriosa Berlino.

E’ l’agosto del 1973, e la delegazione della Fgci partecipa da par suo al Festival mondiale dei giovani comunisti, che raccoglie in Germania Est la gioventù rivoluzionaria di tutto il pianeta. A proposito: in un documento distribuito alla vigilia della kermesse a firma del compagno Piero Fassino, zelante responsabile della delegazione italiana, si raccomanda di non usare il termine “muro”. Meglio dire “confine di Stato”, e meglio - molto meglio - sillabare una sorta di sintetico comizio: “Frontiera di protezione antiimperialista e antifascista.”

Insomma, le prove sono negli archivi. Gattini ciechi, così eravamo, in quel lontano e assolato agosto del ’73. Alla nostra testa viaggiava una ricca e ben sperimentata nomenklatura: Renzo Imbeni, solido capogruppo del plotone emiliano, Valter Veltroni, imberbe responsabile dei manipoli romani. Poi il giovane Fabrizio Barca, inconsapevole del suo futuro destino di inascoltata  “Pizia della sinistra”, e Nando Adornato, colto nel pieno del suo lungo sonno dogmatico.

brandenburger-tor-201939_960_720jpg(foto Pixabay)

Ma qui si vola troppo in alto, ben oltre la smilza, inconsapevole, entusiasta delegazione maremmana. Per tutti i soldati semplici il viaggio è una spensierata prova di iniziazione politica ed umana, a partire dal lungo trasferimento in treno. Una specie di convoglio blindato, con i sedili di legno duro, i corridoi puzzolenti e le latrine sgangherate, attraversa in una lunga curva le periferie del mondo comunista, evitando con cura le metropoli del capitalismo europeo.

E in ogni piccola stazione (come a Sofia! Come a Sofia!) uno stridore di freni, una banda che suona, un gruppo di contadini con il vestito della festa e torme di ragazzini azzimati che applaudono gli inconsapevoli compagni occidentali in visita al mondo nuovo.

Come dentro una matrioska, il treno fischia e sbuffa tra campagna e villaggi. Alla testa del convoglio, in un vagone riservato, i giovani capi studiano le strategie politiche del grande avvenimento che li attende. Tra vagone e vagone, le delegazioni fraternizzano in attesa di una più ampia fraternizzazione internazionalista. Nelle operose retrovie si preparano striscioni, bandiere e cartelli.

Di lì a quindici anni tutto questo entusiasmo sarà spazzato via dalla storia ingrata. E il Muro, e le casacche azzurre con la coccarda dorata, e il Partito, e la Germania democratica, e la torre della televisione, e l’inesorabile Stasi, e le puzzolenti Trabant, che i berlinesi chiamano “saponette” e che alle famiglie costano un anno di stipendio e due o tre anni di attesa.

wall-4960488_960_720jpg(foto https://pixabay.com/it/users/wal_172619-12138562/ )

Datemi quindici anni in più, qualche illusione in meno, e mi vedrete camminare, insaccato dentro un cappottone nero, a fianco della folla festante che nella notte travolge la porta di Brandenburgo e si riversa dentro la città occidentale. Datemi quindici anni in più e mi vedrete attraversare quasi di corsa il Checkpoint Charlie accolto come un figliol prodigo da un’altra folla vestita a festa e trepidante. Baci, abbracci e lacrime, musiche e cartelli scritti a mano che ripetono: “Finalmente!”

La storia lavora per vie occulte e sconosciute ai più. “Ben scavato, vecchia talpa!” direbbe l’uomo di Treviri, padre di tutti noi. Ma tutto questo – voglio dire il futuro – noi cuccioli non lo sapevamo e nemmeno eravamo pronti a riceverlo. Sotto l’orologio di AlexanderPlatz c’era il nostro mondo e lì si raccoglieva  l’eroica gioventù del pianeta, anche se i giovani russi del Komsomol andavano ormai per i quaranta, e i giovani rumeni con i loro completi color cacca di cane sembravano tutti fratelli minori del beneamato leader.

Circolarono leggende politiche, in quei dieci giorni di fuoco. Come la riunione dei capidelegazione italiani convocata d’urgenza da un furioso e scarmigliato Fassino: “Neh compagni, questo è un grande appuntamento politico, non si viene qui per andare a letto con le ragazze…” I compagni cubani, quelli se dio vuole non conoscevano né Fassino né Veltroni, né la filiera di comando della vecchia eroica Federazione giovanile comunista. A loro bastava una chitarra e un tamburo e si tiravano dietro Potsdamerplatz e  tutto il Tiergarten con i suoi ampi viali.

satellite-2781165_960_720jpg(foto Pixabay)

Alcuni, non sapevi da dove venivano. Come la principessa curda che apparve in un pomeriggio di sole, illuse una schiera di compagni e scomparve la sera, senza lasciar tracce di sé e della sua presunta delegazione. I curdi, dove stavano i curdi? Altri, sapevi benissimo da dove venivano. Africani del Congo e del Senegal, mozambicani gioviali, funzionari del Frelimo parcheggiati da eterni studenti fuori sede nei pensionati dell’Università per stranieri di Mosca. Aspiranti rivoluzionari del centroamerica e del Perù, compagni d’arme del Che Guevara, di Inti e Chato Peredo. Minuscoli cambogiani e vietnamiti, duri come fil di ferro, fratelli-coltelli di Ho ci Minh e dei Kmer rossi. Palestinesi scontrosi e arrapati, sottili magrebini persi nel sogno di mille nuove battaglie di Algeri.

Così fu per noi Berlino: una festa mobile, una lunga clamorosa tenera ubriacatura giovanile. Ci si preparava al comunismo che sarebbe venuto, e si fraternizzava con quei fortunati che il comunismo ce l’avevano già. Errore, ignoranza, illusione. Ma servirono - quel viaggio e quella illusione - a scardinare i luoghi angusti della nostra gioventù di paese, l’eterno ritorno del già visto e già consumato, la palude di un futuro borghese che si spalancava ai nostri piedi, il cielo in una stanza della politica italiana.

berlin-2188605_960_720jpg(foto Pixabay)

Datemi quindi anni di più e mi vedrete accarezzare con rispetto quel muro che si sbriciolava, così grigio ad Est e così acceso sul rovescio: una rivoluzionaria esplosione di colori, una tavolozza di sarcasmo e di disperata fantasia. C’era un pezzo della mia gioventù in quel cemento, con i suoi errori e i suoi slanci. E se posso dire qualcosa a mio favore di fronte al tribunale della storia, sarà solo questo: già allora - cari giurati - non mi piacevano i processi, le abiure, le condanne e le confessioni.  Per questo, quindici anni dopo, il mio ritorno a Berlino Est non è stato un funerale ma una nuova nascita.

Infine, quando ritrovammo i duri sedili di legno e i vagoni sferraglianti verso Ovest lungo le periferie d’Europa, la storia era in agguato e la maledizione del Festival mondiale della gioventù pronta ancora una volta a colpire. Quello del 1973 fu un autunno fatale: l’11 settembre il colpo di stato a Santiago del Cile soffocò in una lunga stagione di sangue il sogno di Allende e precipitò nel lutto decine di Federazioni del Pci in tutta Italia. Le euforie di Berlino furono presto dimenticate e il comunismo internazionale – così radioso sotto il Muro tedesco – fece finta di niente e lasciò massacrare i compagni cileni.


*FLAVIO FUSI (Ha imparato il mestiere alla vecchia scuola de L’Unità e per la Rai ha consumato le suole dietro ogni crisi internazionale del Secolo breve e oltre. Non ha mai vinto premi giornalistici e non ha mai ricevuto aumenti ad personam. Ha scritto “Cronache infedeli” - Edizioni Voland - e “Campi di fragole per sempre” - Edizioni Effigi -. Medita e scrive in Maremma)


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