Guida turistica al purgatorio/terza parte 3) L'uomo che salva

di PAOLO BIROLINI*

Ancora una traversa, ancora un immissario. Qui è tutto uguale, inutile fotografare: tre palazzi una traversa, tre palazzi una fiumara.

Nella prima, al piano terra, viveva l’uomo che salva. In verità non ci viveva, ci arrivava tutti i giorni dal Vomero, con la sua barba lunga e le sue sigarette. Dicevano salvasse ogni vita, (non la sua, non quella di mia madre), ma era un tardo imitatore di mio nonno mago, quello che guariva il mal d’amore e aggiustava le ossa, svuotava le case dagli spiriti, toglieva vermi e mal di testa.

Lui era l’uomo medicina e diceva male e guarigione. Per ogni male un rimedio ed una guarigione, per ogni dolore un farmaco. Io ero giallo, respiravo male, non crescevo, non ingrassavo, non sviluppavo che una malinconia incomprensibile, un continuo parlare tra me di donne e giornali e cronache e versi.

A tredici anni ero giallo e non crescevo, non ingrassavo. Percorrevo quei 500 metri dalla casa all’antro dell’uomo che salva, che ingrassa, che toglie l’azzurro dagli occhi neri. Di fianco alla madre rassegnata. L’ingresso scuro e l’attesa tra enormi donne e litanie, numeri senza voce e la ninfa all’ingresso, la sola che meritasse uno sguardo.

Si sapeva già, ma ci si ritornava: non mangia, legge troppo, si chiude in bagno, mormora parole incomprensibili, scrive tutto il tempo. E la risposta uguale, dietro dodicimila sigarette che facevano da incenso in quel rituale: B6, B12, carne al vapore, che il fuoco la prosciuga.

B6 e B12, che a sentirli sembrano ordigni da conflitto mondiale ma sono vitamine nel culo, con siringhe cotte all’aceto dalla zia infermiera improvvisata. Che sopperivano all’assenza di carne. Quella carne che davano a mio padre, in sanatorio, e che lui conservava come una preziosa reliquia, che cedeva a quel figlio incomprensibile. E come una reliquia la trattava mia madre quella carne, che non se ne perdesse neanche un sospiro, che diventasse sangue e ossa e normalizzazione.

Così quell’adolescenza è trascorsa tra la carne inodore e il cavolo e l’aceto bollito che spargeva i suoi miasmi in tutto il palazzetto.

“C’è nella stanza un odor di putredine…” Ancora non lo conoscevo e già lo amavo, il matto di Marradi. Quei tredici anni di fetori e punture dolorosissime e sanatori e sale di attesa e cotognate e nausee.

Non c’è bisogno di entrare, lo sentite da fuori quel dolore, quell’inappartenenza. Lo potete vedere l’uomo che guarisce, l’uomo medicina e le sue assistenti che danzano dal morto. La ricetta, il rituale, la magia dei primi anni ’70. Le B6 e le B12 a sorvolare quell’accenno di modernità, quell’inizio di sopravvivenza, come un vaccino per il predestinato, un emulo del mago, un assassino.


* PAOLO BIROLINI (Napoli, 1959; in lui convivono un fratello furbo e un fratello scemo. Quello scemo fa il Dirigente d'azienda e mantiene quello furbo, che prova a fare il poeta) 

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