Guida turistica al Purgatorio / terza parte 8) Finisterre

di PAOLO BIROLINI*

 C’è un pezzo disadorno del mondo che non racconta niente a nessuno. In genere è una strada, un -collegamento necessario e silenzioso. Prima c’erano un bar, qualche vita, una lezione. Poi il deserto dello smarrimento. Però quella strada è necessaria, è necessario quello smarrimento.

E allora bisogna avanzare per non chiudere il cerchio troppo presto, che se svoltate a sinistra tornate al Cavone, magari trovate un parco, una scuola, il ricordo di una sezione, una fabbrica, una specie di vita. Non è quello che stiamo cercando.

C’è un rito di passaggio. Prima un annuncio di paese, una propaggine di incivile presunzione, un inutile prolungamento della sofferenza distesa sul vuoto. Chi ci sta qui? Chi ha deciso di passare sere e notti e risvegli sotto questo cielo polveroso, in questo rombo costante, in questo cul de sac dell’esistenza? Un po’ fuori e un po’ dentro. La città lontanissima, arterie chiuse, malattie. Come fate a costruire un racconto in questo limbo?

E infatti nessuno racconta nessuno. Non ci sono racconti a Finisterre. Guardi e non c’è nulla, abiti e non te ne accorgi. Non c’è neanche un nome, l’ultimo promontorio prima dell’isola nuova della Cittadella.

Si saltava usando auto scarburate, vespe affollate. Si saltava chiudendo gli occhi per non farsi corrompere da quell’anonimato. Si narravano leggende sugli abitanti. Gli stessi abitanti narravano leggende.

Io passavo di corsa. Quando pensarono ad una scuola che non fosse un tinello la pensarono distante, al limitare della palude, un preannuncio di fiume. Pensarono che la conoscenza non fosse per quei maori: si limitassero alla haka nel Quartiere, alle guerre tra bande, al lancio di sassi. La distanza era una forma di selezione che superai. Che ero veloce come un figlio del fortunale, che i sandali sudati mi arrivavano al culo, che volevo fendere quell’aria impestata, quel dolore tangibile.

Fecero una scuola paludosa e distante più a nord del deposito, nessun mezzo per malati per raggiungerla: auto scarburate o sandali. Io propendevo per i sandali alati, un breve Mercurio estraneo e pericoloso che passava quell’abitato inutile d’un balzo. Un sorriso ed ero già sul cavalcavia a guardare quell’arteria infinita che portava in Italia o al mare.

Così cominciai ad immaginarmi un fiume senza averlo mai visto. Cominciai a costruirmi un fiume da guadare, salamandre d’oro e leggende tramandate. Pescavo pensieri futuri, pescavo futuri e pensieri.

Mettetevi sul ponte sul lato sinistro, fotografate Roma, Bologna, riprendete Milano. Poi passate al lato destro e sognatevi il mare, Montepertuso, Erchie, il sole entusiasmante di Empedocle. Io la mattina guardavo il mare, la sera Milano. Passavo quell’intreccio impossibile, due strade incrociate in alto e in basso, senza toccarsi. E quell’impossibilità ancora la coltivo.

Sono rimasto sul ponte: la mattina guardo il mare, la sera Milano.

* PAOLO BIROLINI (Napoli, 1959; in lui convivono un fratello furbo e un fratello scemo. Quello scemo fa il Dirigente d'azienda e mantiene quello furbo, che prova a fare il poeta) 

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