Guida turistica al purgatorio / seconda parte 5) Il ramo d'oro

di PAOLO BIROLINI*

La Chiesa è un trivio: proseguiamo per il finale della Stadera, svoltiamo a sinistra per Arpino o entriamo? Chissà chi esercita adesso il sacerdozio. Una volta era un orto racchiuso. Un muro perimetrale e sbarre altissime separavano il venditore di palloni dal distributore di grazie. Ma la grazia era assente. C’era un uomo con l’abito nero e spaventava, urlava, impediva l’accesso all’orto, alla feritoia che portava al campo di polvere di tufo. Io non potevo entrarci, non mi voleva.

Mi vendicai col tempo, coprendo quel cancello con le mostre sul Cile, le magnifiche sorti dei comunisti russi, gli entusiasmi per il Mozambico. Era una roba stupida. Ero io nel torto, lui difendeva giustamente il giusto della sua trascendenza da ortolano. Sbagliavo io. Erano solo luoghi: il passaggio tra la strada ed il campo, il passaggio nell’orto e la mano bagnata nella pischera, la via stretta e pericolosa tra nuova strada e nuova casa. Luoghi che non valeva la pena difendere. Non c’era una persona all’altezza. Non lo era il sacerdote, non l’uomo di campagna, non il ragazzo e il suo cane cattivo che si frapponevano tra la scuola e la Madre. Il ragazzo migrante che, alla mia prima uscita nel quartiere, mi colpì con un sasso importante e involontario. Mi causò una miopia perenne, la constatazione della solitudine, una certa unicità nel pensiero.

Però era un luogo fresco quella chiesa. E forse lo è ancora. Entrate ed aggiornatemi sulla temperatura della santità. Nel tempo il vecchio prete se n’è andato, ne conservo la pagellina come un motto di spirito. Nel frattempo, è sparita la muraglia. Adesso è un luogo aperto, rinnovato dal tempo e dai rosari. Ci può entrare chiunque ma ci entrano sempre gli stessi. Persino l’orto interiore ora è un giardino. La chiesa non ha niente di notevole, né all’interno né fuori. Solo una porta. Dentro, nuovi officianti e pitture rupestri. L’albero, il ramo e i fanciulli defunti.

Sui prolungamenti degli assi: un pescivendolo rumoroso e una scuola. Di fronte alla scuola una sezione socialdemocratica e un ping-pong. Dietro la scuola mia madre e i suoi gerani, i suoi garofani. Un balcone minore, un cortiletto proibito, una caduta catastrofica. Dobbiamo decidere se proseguiamo sull’ultimo tratto della Stadera o deviamo verso la vita nuova, tra il pescivendolo e i miei primi due libri.

Decido io per voi, che non potete parlare. Andiamo dritti, completiamo la storia, abbandoniamo il fiume, riprendiamo anche la sponda di destra, soltanto per un attimo, che oltre Boccalatte e il macello imminente di fronte c’è un’edicola e ci sono cento copie del giornale e il quartiere battuto palmo a palmo la domenica. Di fronte c’è l’edicola e il terzo libro, quello determinante, quello che metteva insieme comunismo e poesia, il sogno inconfessato della gloria per parola e della morte per parola e del sesso per parola, che finora mi è riuscita una sola parola.

Don Raffaele era il sacerdote nubiano, il tramite, il distaccato, l’illuminato. Aveva troppe figlie e io gli piacevo. Ma io ero lettore all’epoca, non sposo se non delle maledettissime parole incrociate a quella congregazione di destino e caduta. Non cedetti a quelle lusinghe interessate.

L’edicola c’è ancora, nascosta da qualche parte. È una cosa da fotografare, da riportare in patria. Noi torniamo alla riva sinistra. Al pescivendolo analfabeta e laurino e mai eletto. All’acqua che colava da lupini e alici e cefalotti del Volturno. A lui che vinse il colera e che tornò da Roma, come un emulo del Re di Poggioreale che riportò il tesoro del santo innominabile, con 5000 dosi di vaccino. E noi imperterriti a gestire le code e gli afrori e le donne bellissime in coda.

È tutta così questa via della Stadera, è così la sua coda. Un Re dopo un Re, in attesa di me e del mio ramo. Che li colpisco alla fronte e li schiumo di sangue e fato e li preparo all’avvento di un regno involontario. Il ramo, il bosco, ‘O Rre’!


* PAOLO BIROLINI (Napoli, 1959; in lui convivono un fratello furbo e un fratello scemo. Quello scemo fa il Dirigente d'azienda e mantiene quello furbo, che prova a fare il poeta) 

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