Guida turistica al Purgatorio / seconda parte 1) Il sangue, la pietra

di PAOLO BIROLINI*

Misura meno di due metri la distanza tra preistoria e rivoluzione industriale. È segnata da una pietra di confine. (Nel ricordo erano due). E la pietra era un divieto prima ed un divieto dopo. Quando sono nato nel recinto della città verminosa e dilagante non si poteva andare in là, che in là c’erano linguaggi pericolosi e incomprensibili, la campagna degli amanti, la salita di Cerano, consentita una volta all’anno, nei residui del martedì in albis.

Poi hanno urbanizzato l’in là. Addosso ad un vicolo oscuro, padroni di cantine hanno costruito sei scale e tutta una foresta. Case senza ringhiere, cortili senza fango, bagni, cessi, lavandini, cucine, divani, stanze, frigoriferi, telefoni, ingressi, cappelliere, scale e classi sociali. Automobili, plastica, gite domenicali e domeniche. Pellegrinaggi.

Bastano tre passi. Dietro, fango e storie, fantasmi e rottami, in una parola: Napoli. Davanti questo luogo inventato, questo casale donato per devozione ad un paese lontano ed oscuro da un feudatario devoto ad Agrippino. Un cuneo barbaro nel fianco molle del quartiere. Ma barbaro come il sangue rinnovato, i nonni morti, il quartino ripulito, il mezzo bagno, il cibo.

Tra voi e la pietra di confine, a sinistra, c’è l’ennesima Cupa, inspiegabilmente intitolata ad un Segretario. Si chiama proprio così: Cupa del Segretario. Porta a scorciatoie e terre nubili, baccanali e sesso veloce. Non la guardate, la Cupa, saltate la pietra e a sinistra, a salutarvi, cibo e abbondanze. Un salumiere, che sembrava un ipermercato ai miei occhi miopi, dove andavo in missione per misurini di olio, salse in carte improbabili, salumi poverissimi.

Un macellaio che odorava di sangue e sanguinaccio e che scatenava le mie gelosie. Riservato a mia madre l’acquisto delle carni, riservata a mia madre l’attenzione di un lavorante smunto, Cesarino, che mia madre ricambiava con uguale attenzione, facendomi tremare le vene adolescenti. Che mi sembrava incomprensibile persino un raffronto lontano tra quel fantoccio emaciato e il mio padre bellissimo e sudamericano. (Tranne poi scoprire che si trattava di semplice pietas della madre beghina per una povertà più povera della nostra povertà e una malattia più letale delle nostre malattie).

Un venditore di baccalà, in tutte le sue forme e variazioni, immerso in un bagno costante e olive e profumi stridenti e, un attimo prima, una drogheria con altri profumi e una vetrina di giochi dove il gioco principale era correre e arrivarci per prima dichiarando il proprio e inarrivabile cimelio. La drogheria delle barchette di liquirizia e dei cucirini per i rammendi alle tute.

Ma non siamo qui per rammentare le drogherie di una volta. Potete mangiare e prendere il caffè esattamente come accadeva 50 anni fa. Qui non è cambiato nulla. Una storia recente e niente storie. Vetrina dei giochi a parte, nemmeno un’emozione: un gommista inavvicinabile, la cicatrice di un ristorante che ha segnato la mia passione per i glicini, ma che qui era già nella sua versione aggiornata e che adesso ha spostato gli odori in un altro luogo ancora. Irrequieto e lento: da antica cantina di campagna a pizzeria con panche americane, a cibo da asporto. La velocità del degrado così uguale al nostro, al vostro degradare. Ma la cantina è un luogo a parte, per un capitolo a parte. È vino e glicini ed estasi e canzoni. Un capitolo a parte.

Io non ho grandi storie da raccontarvi da qui. Questa era la facciata di cartone di una salita di campagna a sinistra e di una discesa agli inferi a destra. A destra ancora Napoli, dietro ancora Napoli, davanti la vita nova, coi suoi sandali sporchi.


* PAOLO BIROLINI (Napoli, 1959; in lui convivono un fratello furbo e un fratello scemo. Quello scemo fa il Dirigente d'azienda e mantiene quello furbo, che prova a fare il poeta) 

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