Greyhound

di VIRGINIA BOTTI CAFFONI*

C’è un levriero che corre su infinite lingue di asfalto. Percorre le autostrade più vaste e risale le salite più erte. A volte sfreccia e a volte arranca, si ferma, riparte e insieme a lui centinaia e migliaia e milioni di persone si spostano da una città all’altra, da uno stato all’altro, nel modo in cui si spostano loro, gli americani.  Si trasferiscono, cercano fortuna, scappano, si riuniscono alle famiglie, lavorano, girovagano per un paese che è un continente e che per molti di loro è tutto il mondo, gli Stati Uniti d’America. Ma non è un cane questo levriero, è un pullman. Sono migliaia di pullman che uniscono i grandi spazi a tutte le ore del giorno e della notte.

greyhound 4 - Copiajpg(Foto Virginia Botti Caffoni)

Greyhound Lines, la silhouette scattante, così riconoscibile, disegnata ai lati dei bus, è il mezzo che senza alta velocità né particolare modernità connette tutti gli stati americani, attraversati da lenti treni che faticosamente trasportano lunghe code di container per il paese e veloci aerei che spesso però sono troppo cari, troppo controllati per adattarsi a viaggi diversi da quelli di lavoro o di piacere.

Le stazioni Greyhound sorgono sovente negli angoli al limite delle città, a volte ai lati dell’autostrada, avvolte nell’oscurità e nella solitudine, i luoghi ideali per chi è fuori dalla società, per chi cerca un posto in cui sedersi al caldo o usare un bagno. Possono essere losche e poco sicure, possono essere affollate o completamente deserte, sono sempre uno specchio chiaro di quella cultura americana che si allontana dal luccichio delle grandi città e dei suburbs coloniali e si avvicina all’America dei Beatnik, degli hitchikers, dei senzatetto e dei giovani senza radici.

Mi ci sono trovata alcune volte, durante il mio lungo viaggio in America iniziato nel 2010, in quelle stazioni. Ma il momento in cui mi ci sono trovata - diciamo così - più di tutti è stato nel marzo del 2011. Ero davanti al mio computer portatile nello Starbucks tra la 16th e Blake, a Lower Downtown, Denver, quando scuotendo la testa mi maledicevo per essere stata così poco organizzata da ritrovarmi a una settimana dal mio volo di rientro in Italia, che partiva dall’altra parte del paese, con meno di 300 dollari in tasca, e cliccavo il tasto BUY sotto il mio ultimo biglietto Greyhound: partenza Denver, Colorado – arrivo West Palm Beach, Florida.

3200 chilometri, 52 ore. 183 dollari e 92 cent.

In quel momento iniziavo un’avventura che da sola sarebbe potuta valere il viaggio intero.

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(Foto Virginia Botti Caffoni)

Partii la mattina seguente, su un bus gremito a tal punto da avere passeggeri sdraiati a terra tra i sedili, e che percorrendo la Interstate 70 lasciava alle sue spalle le Rocky Mountains, dirigendosi verso le grandi pianure del Midwest. Mentre attraversavo il confine con il Kansas e cambiavo il primo fuso orario entrando nel Central Time, iniziavo già a scalpitare dal caldo e dalla scomodità. Sedevo al posto corridoio incastrata tra un’enorme donna che mangiava noccioline alla mia sinistra e un uomo che dormiva rumorosamente di fianco ai miei piedi. Le ginocchia del passeggero dietro di me tenevano il mio sedile rigidamente eretto e non potevo muovermi. Non ero nemmeno arrivata a un quarto del mio viaggio e già credevo di impazzire.

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(Foto Virginia Botti Caffoni)

A notte fonda, finalmente, a St. Louis Missouri, scesi per cambiare autobus. I cambi bus erano una boccata d’aria fresca. Potevo andare in bagno, rovistare tra gli snack della stazione, sgranchirmi le gambe e non appena mi fermavo su qualche panchina finivo circondata da altri viaggiatori, sempre incuriositi dal mio gigantesco zaino e dal mio accento bizzarro, e qualunque fosse la loro età, la loro storia, la loro provenienza, finivamo in gruppo a scambiare le storie più disparate e spontanee: diventavamo Bus Friends. Ogni cambio bus significava poi diversi compagni di viaggio, diverse storie, un posto diverso in cui sedersi. Ripartendo dal Missouri fu bellissimo trovare ben due posti liberi tutti per me, sui quali mi sedetti prima girata all’indietro per chiacchierare con Mary e Troy, che mi offrivano crackers a forma di animali sorridendo su come ancora gli piacessero alla loro veneranda età, e sedili sui quali poi mi sdraiai per dormire finalmente qualche ora attraverso l’Illinois, sui quali poi mi svegliai assistendo a una meravigliosa alba rosa e azzurra decorata da lunghe nuvole dense sopra l’Indiana, mentre nelle mie orecchie suonava Embryonic Journey dei Jefferson Airplane.

Feci colazione in Kentucky, mi fermai per un nuovo cambio bus a Nashville, Tennessee, e mi godetti un viaggio fino ad Atlanta in un nuovissimo e modernissimo bus con morbidi sedili extralarge in pelle e addirittura la wi-fi, che non sfruttai neanche un attimo perché avevo un disperato bisogno di dormire.

Al nuovo cambio bus nella grande e trafficata stazione di Atlanta, Georgia, finii seduta per terra ad assistere a un improvvisato concerto di Erik, che arrivava dall’Idaho e aveva ricevuto in regalo una chitarra da una donna mascolina che viaggiava verso Jacksonville e se ne voleva liberare. Gli raccontai la mia storia e lui mi raccontò la sua e mi salutò abbracciandomi e io gli regalai delle sigarette.

E sul bus verso Orlando, Florida, quando ormai ero entrata nel terzo fuso orario, conobbi un giovane ragazzo svizzero che in America ci era appena arrivato, e aveva comprato un pass di tre mesi per viaggiare su Greyhound, iniziando la sua avventura proprio nei giorni in cui io la terminavo.

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(Foto Virginia Botti Caffoni)

E poi c’erano quella coppia di fratello e sorella che non stavano mai seduti vicini, erano saliti a Denver come me e da Denver lei non aveva mai fatto un sorriso, non aveva mai proferito parola. Chissà qual era la loro storia.

E infine c’erano gli autisti, tanti ne erano cambiati in quelle lunghe 52 ore di viaggio, tutti grossi omoni un po' burberi che prima di ogni partenza facevano una predica al microfono in cui si raccomandavano che tutti si comportassero a dovere, a volte con parole dolci o divertenti, a volte con minacce di scalciarci giù dal bus.

Quando arrivai a West Palm Beach, le gambe quasi non mi reggevano più. Non sapevo quanto avevo dormito né quanto e cosa avevo mangiato nei giorni precedenti, il mio zaino sembrava quasi impossibile da sollevare, mi sentivo pesante e leggerissima allo stesso tempo. Salutai gli ultimi bus friends prima di scendere con una profonda commozione. Salutando loro salutavo tutti quei brevi ma intimi compagni di viaggio che mi avevano accompagnata fino a quel momento, quelli a cui tutte le strade e le miglia appartenevano, le percorrevano con la levità di chi è abituato a girovagare.

Greyhound mi ha regalato l’autenticità cruda e onesta degli americani, così distaccati ma così amichevoli, così chiusi ma così curiosi, così diversi tra loro ma così vicini.

Mi ha regalato l’enorme vastità degli Stati Uniti e dei loro orizzonti, che restano uguali tanto a lungo da farli sembrare infiniti, per poi cambiare improvvisamente e trasformarli ogni volta in un posto nuovo. Mi ha insegnato l’America, proprio quando pensavo di averla già imparata.

Non esiste mezzo migliore, per scoprirla. 


*VIRGINIA BOTTI CAFFONI (*Classe 1985, nata a Milano ma con l’Asia nel cuore. Vado in giro per il mondo da quando ho fatto la prima profilassi antimalarica e sto bene quando ho una matita e un biglietto aereo in mano)


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