Gli Usa, l'uomo-sgabello e la stecca di cioccolato

di GIORGIO  OLDRINI*

Fabio Zanchi ha raccontato cosa succedeva decenni fa ad un comunista italiano che volesse andare negli Stati Uniti. Ho avuto tre esperienze. La prima nel 1984, ero il corrispondente dell’Unità a Cuba e un giorno arrivò una folta delegazione statunitense guidata dal reverendo Jesse Jackson. Con lui altri religiosi e attivisti dei diritti umani e giornalisti di televisioni, radio e giornali statunitensi. Per alcuni giorni all’Avana fu la follia. Mentre attendevano che Fidel Castro e Jesse Jackson uscissero dal salone al Palacio de la Revoluciòn in cui si era svolto il loro primo incontro, noi corrispondenti all’Avana eravamo incuriositi da una giornalista Tv degli Usa che si aggirava con la sua cinepresa accompagnata da un omone immenso. Quando si aprirono le porte ed apparirono il Comandante e il Reverendo, tutti ci accalcammo verso di loro, mentre la giornalista si mosse con calma, ma a quel punto l’omone prese rapidamente sulle sue possenti spalle la nostra collega che così ritrasse, come dal cielo, la scena. Un uomo sgabello ci parve la rappresentazione grafica dello sfruttamento yankee.

Il momento per me più emozionante fu un paio di giorni dopo, quando nella bella chiesa del Vedado, a pochi passi dall’Hotel Habana Libre, era prevista una messa officiata dal pastore Ben Chavis, uno di quei nomi che avevano accompagnato la mia gioventù di solidarietà col movimento di emancipazione dei neri americani. Ora finalmente potevo vederlo di persona. Entrai nella chiesa e trovai posto in una delle ultime panche, proprio vicino alla porta di entrata, che si chiuse. Chavis cominciò la funzione, quando improvvisamente le porte si aprirono ed entrarono insieme Fidel e Jackson, alti tutti e due, quasi monumentali, mi sfiorarono a passo lento. Chavis dall’altare si fermò, poi con voce solenne “Saluto umilmente il fratello Fidel Castro”.


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(Fidel Castro                        da pixabay)


Alla fine della permanenza di Jackson, i cubani decisero di liberare una serie di prigionieri che sarebbero partiti sull’aereo col Reverendo. La corrispondente dell’agenzia spagnola Efe chiese di salire sul velivolo e di accompagnare delegazione e liberati fino a New York. L’addetta alle relazioni esterne di Jackson prese qualche tempo, poi acconsentì. La spagnola corse a casa a prendere il passaporto e qualcuno mi disse: chiedilo anche tu. Così andai dalla stessa pr che mi disse: “Hai il passaporto? Vai a prenderlo in fretta che dobbiamo chiedere il visto anche per te”. Corsi a casa, e tornai in un battibaleno all’aeroporto. L’addetta stampa mi sorrise imbarazzata. “Mi spiace, ma le autorità statunitensi hanno detto che se tu sali sull’aereo l’aereo non atterrerà mai negli Usa”. Così vidi partire Jesse Jackson, Ben Chavis e tutti gli altri da terra, triste, ma anche un po’ orgoglioso. Se addirittura la mia sola presenza bloccava il ritorno a New York di una simile delegazione, dovevo essere una minaccia ben importante per l’impero del Nord.

Il secondo scontro con gli Usa lo ebbi qualche anno dopo. Era il 1989 e ormai ero tornato all’Unità di Milano dove mi occupavo della politica e specialmente del Comune di Milano. Si progettava la prima metropolitana senza conduttore e la società che avrebbe dovuto realizzarla invitò una serie di giornalisti negli Usa per vedere le linee che aveva costruito laggiù. Andai al Consolato Usa di largo Donegani a Milano per il visto e mi fecero compilare un modulo nel quale c’era una curiosa domanda: “Hai malattie infettive o sei comunista?” Risposi di sì e allora un funzionario mi prese da parte e mi chiese quale delle due malattie avevo. “Comunista”. Mi chiese che cariche avevo rivestito e rivestivo. Poi “Sei già stato all’estero?” “Sì”. “Dove” Io elencai una serie di Paesi innocui. Svizzera, Francia, San Marino. “Solo?” “No, anche a Cuba”. Lui si rabbuiò “Per quanto tempo?” “Otto anni”. “Otto anni?” “Otto anni”. “Torni dopodomani”. I miei colleghi se ne erano già tornati a casa da tempo quando finalmente riuscii ad uscire dal Consolato. Ci tornai dopo un paio di giorni ed ebbi il visto. Ma anch’io, come Fabio Zanchi, quando arrivavo in un aeroporto venivo separato dal resto del gruppo, segregato per qualche tempo in una stanza laterale dove immaginavo mi stessero passando ai raggi fin nelle parti più intime. Peggio per loro.


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(Jesse Jackson      da pixabay)


L’ultima volta, una decina d’anni fa. Mio nipote Matteo correva la maratona di New York e noi partimmo per sostenerlo. Mia moglie Tina, mio figlio Giulio, Elena, sorella di Matteo, con la figlia Anita, una ragazzina. Nella tappa di Londra Anita comprò una stecca di cioccolato che si tenne in borsa. Scesi finalmente a New York la guardia vide quella che individuò subito come famiglia italiana tipo: due nonni (Tina ed io), due figli (Elena e Giulio) e una nipote (Anita). E sicuramente nella sua testa scattò l’allarme: come nel film di Sofia Loren sicuramente avranno qualche salame e una mortadella. Chiese “Avete cibo?” E l’incauta Anita rispose “Sì”. Finimmo tutti nella solita stanza separata, ad aprire valige stracolme come si conviene e a farci scrutare dai raggi yankee fin dentro le mutande. Salimmo dopo mezz’ora imprecando contro la povera, incauta Anita e la sua stecca di cioccolato.  

Ve bene essere considerato un pericolo come portatore di comunismo, ma come trasportatore di una stecca di cioccolato mi era sembrato il segno di una decadenza inarrestabile.


*GIORGIO OLDRINI (Sono nato 9 mesi e 10 giorni dopo che mio padre Abramo era tornato vivo da un lager nazista. Ho lavorato per 23 anni all’Unità e 8 di questi come corrispondente a Cuba e inviato in America latina. Dal 1990 ho lavorato a Panorama. Dal 2002 e per 10 anni sono stato sindaco di Sesto San Giovanni. Ho scritto alcuni libri di racconti e l’Università Statale di Milano mi ha riconosciuto “Cultore della materia” in Letteratura ispanoamericana)

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