Foglieviaggi da gregari, storie dal Libro della Corsa

di MARCO PASTONESI*

Fogli e viaggi. Anche per loro. Fogli, quelli del Garibaldi, il libro della corsa, partenze e arrivi, planimetrie e altimetrie, gran premi della montagna e traguardi volanti, rifornimenti e ospedali. E viaggi, le tappe, chilometri e medie, precedenti e previsioni, avventure da affrontare e disavventure da sopportare. E pure i fogli di altre corse, e pure i viaggi di altre tappe, non solo Giri ma anche Tour, classiche italiane e del Nord, ormai dovunque, in Asia e in Africa, dove il ciclismo ha moltiplicato occasioni e appuntamenti.

Fogli e viaggi. Li ho chiesti ai gregari: i proletari della bicicletta, gli sherpa a pedali, i soldati semplici a due ruote e un cuore grande così, i portatori di acqua fresca e buoni sentimenti, un po’ domestici e un po’ badanti, gli assistenti di piano ma anche di salite e discese, allenati a inseguire, tirare e spingere, disabituati a vincere, e comunque vincitori per conto dei capitani.

Fogli e viaggi vissuti nella pancia del gruppo o visti addirittura dal fondo della corsa, ritardatari (ma non ritardati, come sbadatamente pronunciato da uno speaker), tallonati dal camion-scopa pronto a raccogliere chi cede alla stanchezza, allo sfinimento, agli incidenti e infine alla irresistibile tentazione di interrompere un calvario.

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Fogli e viaggi inediti, perché la storia ufficiale è scritta dai vincitori, ma quella vera appartiene agli ultimi. Nel mio piccolo, ho dato loro la voce.

“Elogio del gregario” (Battaglia Edizioni) sono i miei fogli e i miei viaggi nelle storie di alcuni gregari, quelli che gli anni delle corse mi hanno regalato più da vicino. Il primo fu Renzo Zanazzi, gregario di Gino Bartali nella Legnano subito dopo la Seconda guerra mondiale, gregario di Fausto Coppi nella squadra nazionale diretta da Alfredo Binda al Tour de France, e gregario di Fiorenzo Magni nella Ganna, gregario recalcitrante e contronatura, perché il suo istinto era quello di giocarsela per sé, tant’è che le sue tre vittorie di tappa e i suoi tre giorni in maglia rosa al Giro d’Italia furono oggetto di critiche, gelosie, invidie e polemiche all’interno della sua stessa formazione. Zanazzi mi raccontò con realismo quell’era romantica del ciclismo: dettagli e retroscena tranquillamente sorvolati dai cronisti e dagli scrittori che seguivano gli eroi nazionalpopolari. Storie di assalti ai bar e forature a raffica, di volate nei campi e fughe con le miss. Da quel momento non ho più smesso di rivolgermi indietro, in fondo. C’era gente in vena, in gamba.


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(Marco Pastonesi con Marzio Bruseghin)


Come Marzio Bruseghin. Sedici anni da professionista al servizio di capitani come Alessandro Petacchi e Damiano Cunego, anche ai Mondiali e alle Olimpiadi, e cinque vittorie in cinque cronometro, tre individuali (un campionato italiano e due tappe al Giro) e due a squadre. Risultato: mai alzato le braccia al cielo, perché nelle cronometro per sapere chi ha vinto bisogna aspettare tempi e classifica. Ma c’è altro nel ciclismo e nella vita. E questa è la lezione di Bruseghin. Il suo forte: la semplicità, la genuinità, la naturalezza. La sua casa a Piadera, un balcone affacciato su Vittorio Veneto, fra vigneti e asini, fra Prosecco e ragli. Il suo soprannome: “il Musso”, l’asino. E i suoi sostenitori: con un berretto grigio con le orecchie lunghe e con una maglietta con la scritta petica “sesso, vin e Bruseghin” o l’alternativa aritmetica “meglio 1 giorno da asino che 100 da leon”. E se raglio d’asino non sale in paradiso, c’è da capirlo.


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Bruseghin può raccontare storie non solo di cotte e crisi, ma anche di qualche trionfo. Come a Urbino il 20 maggio 2008, decima tappa del Giro d’Italia, la Pesaro-Urbino di trentanove chilometri e quattrocento metri, a cronometro. “Dopo la Civitavecchia-San Vincenzo ci fu un lungo trasferimento a Fossombrone, credo, una specie di Tirreno-Adriatico sul pullman, poi a dormire tardi. Ma tutto in allegria. Quella della Lampre era una grande famiglia, da Szmyd a Loosli, da Baldato a Lorenzetto, da Pengo il meccanico a Della Torre il massaggiatore, ma tutti, proprio tutti, perdonatemi se non vi cito a memoria, uniti come fratelli o cugini. Poi il primo giorno di riposo e la ricognizione del percorso. La prima metà pianeggiante, la seconda impegnativa. La Wilier mi consegnò una bici ibrida, metà da strada e metà da crono, perfetta. Poi il giorno della crono prima una sgambatina, quindi la gara. Era quel Giro d’Italia in cui, dovunque si andasse, pioveva tutti i giorni. E infatti anche quella mattina era umida. Partii bene, ma non benissimo. Al cambio di percorso, dal piatto alla salita, trovai le sensazioni migliori, il ritmo giusto, l’armonia ideale. Non so se fui io a fare meno degli altri, oppure gli altri a fare più di me. Direi: gli altri a fare più di me, anche per colpa della pioggia. Che graziò me, ma colpì loro”. Nell’ordine: Contador, Kloeden, Pinotti, Savoldelli, Menchov, Nibali... “Insomma non fu merito mio, ma demerito loro”. A volte si vince anche con la modestia.

*MARCO PASTONESI (Ha scritto per ventiquattro anni per la “Gazzetta dello Sport”. Si divide tra due passioni: il rugby e il ciclismo. Su tutti e due ha scritto molti libri - tra cui Gli angeli di Coppi, Il diario del gregario, I diavoli di Bartali, con Fernanda Pessolano Attenzione ciclisti in giro. Ha affiancato Alfredo Martini nella scrittura dell’autobiografia La vita è una ruota)


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