Eleuthera, il libero paradiso delle Bahamas

di VIRGINIA BOTTI CAFFONI*

È lunga Eleuthera, ma così sottile che a volte ti senti in bilico tra un mare e l’altro.

Sembra una piuma cha galleggiando sull’acqua fluttua libera tra l’Oceano Atlantico e il Mar dei Caraibi. Libera, così come era stata nominata dagli esploratori britannici che la scelsero come luogo in cui professare liberamente la propria fede. Libera dalla caotica calca di turisti che ti circonda quando lasci la Florida alle spalle dall’aeroporto di Fort Lauderdale, libera dalla incalzante nightlife di Miami, dai suoi chiassosi negozi di souvenir, dai camerieri abbronzati che fuori dai ristoranti ti mostrano ricchi menu e offrono sontuosi happy hour. La via più veloce per raggiungerla è un viaggio di poco più di un’ora su un piccolo aeroplano, di quelli con le eliche e una sola ventina di posti, che per chi ha paura di volare sono un tormento mica male ma per chi invece ha il coraggio di guardare dal finestrino sono per la vista uno spettacolo straordinario di solitarie isole e acque verdi.

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Eleuthera ha tre minuscoli aeroporti: North Eleuthera, a nord appunto, Governor’s Harbour al centro dell’isola e Rock Sound, più a sud. Si notano principalmente piccoli apparecchi privati nelle piste di atterraggio e decollo, e solo una manciata di aerei di linea come il nostro, colorati del vivace fucsia della Silver Airways o del giallo e blu di Pineapple Air. Con pochi passi, scesi dalla scaletta dell’aereo, si raggiunge la struttura vera e propria: una piccola stanza in cui si arriva, da cui si parte, in cui si raccolgono i bagagli su un vecchio tavolo di legno per ispezionarli insieme a simpatici agenti bahamiani rinfrescati dal traballante ventilatore sul soffitto.

Ci aspettavano due persone all’arrivo a Governor's Harbour, e le abbiamo incontrate entrambe in 5 minuti, il tempo esatto che ci abbiamo messo a recuperare le valigie e passare l’Immigration, sosta alla toilette compresa. Il primo, Arthur Nixon, il panzuto proprietario del Liquor Store al quale il proprietario del nostro Airbnb aveva lasciato  le chiavi di casa da consegnarci, ci aspettava seduto pigramente su una panchina all’uscita. Temevo sarebbe stato difficile trovarlo, quando avevo ricevuto le indicazioni dal nostro host, ma erano solo una decina scarsa i viaggiatori sbarcati con noi quel giorno, e tutti conoscevano Arthur Nixon nel minuscolo scalo. La seconda, una bellissima agente di Big Daddy, la pittoresca agenzia da cui abbiamo affittato la macchina, indispensabile per un soggiorno a Eleuthera, che ci ha riconosciuti dalle foto che le avevamo mandato via mail e ci ha accolti con un sorriso splendente come quel caldissimo sole bahamiano. Per arrivare a destinazione, le indicazioni erano chiare: dirigetevi a sud per circa cinque miglia. Quando sulla sinistra vedrete una palma altissima, sarete arrivati al Banana Beach Estates.

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La libertà di Eleuthera noi la sentivamo già da questo, da un arrivo così facile, da incontri così spontanei, da una strada senza indicazioni, dall’orientarsi attraverso gli alberi più alti.

Fa caldo in agosto alle Bahamas, ed è stagione di uragani. I proprietari delle ville stratosferiche nascoste nella fitta vegetazione o i facoltosi clienti dei resort lussuosi di cui si intuiscono gli ingressi grazie a sobrie ed eleganti insegne celate nelle folte siepi, qui ci vengono in autunno, in inverno e primavera. In estate, a parte gli abitanti dell’isola e qualche raro turista temerario, non c’è nessuno. Dall’unica strada principale che percorre l’isola da nord a sud, si accede a piccole traverse secondarie sterrate, che frequentemente diventano dissestate, e che senza chiare indicazioni, con un po' di attenzione nella lettura della cartina, un po' di pazienza e a volte un po' di fortuna, sbucano in un numero di diverse spiagge meravigliose, talora ampie e dalle basse acque turchesi, a volte strette tra le palme e bagnate da un mare smeraldo, o ancora ventose e dalla sabbia così sottile da sembrare borotalco, oppure rosa e così brillanti da abbagliare la vista. Sempre, completamente, vuote.

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E così, nonostante tu non stia scoprendo nulla di nuovo, ti senti sempre un esploratore a Eleuthera. Ogni spiaggia, nonostante abbia già un nome, è una tua conquista. Sei solo, tu, il tuo mare davanti, la tua natura selvaggia dietro, le tue palme a ripararti dal sole e a sorreggerti mentre sorseggi una Kalik ghiacciata e ti congratuli con te stesso per essere riuscito a raggiungerla e a riconoscerla, quella spiaggia incantevole indicata sulla mappa. Libero.

La bassa stagione, la posizione geografica defilata, lo scarso afflusso di turisti fanno di Eleuthera una meta costosa. Tralasciando il volo, che dipende dalle offerte e dalle tempistiche di prenotazione, l’alloggio, che nel nostro caso era una simpatica casetta verde acqua immersa nelle frasche e senza fronzoli e abbastanza economica, e tralasciando anche l’affitto della macchina, che varia notevolmente a seconda del modello scelto, ciò da cui non si sfugge è il cibo.

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 I ristoranti aperti al di fuori degli alberghi sono pochi: ci si può imbattere in eleganti terrazze sul mare, in cui passare cene tranquille, disturbate solo dal volo scomposto delle enormi falene scure (così grandi che loro le chiamano Bat, cioè pipistrelli) che affollano l’isola al tramonto, o ci si può sedere su una panchina sul molo a mangiare lo street food composto da pesce alla griglia o dalle tipiche Conch, grandi conchiglie i cui molluschi si consumano fritti o con cipolla, pomodori e lime in insalata. Ci si può fermare in bar caraibici sulla sabbia a bere Kalik, la birra locale, o si possono acquistare deliziose Rock Lobster direttamente dai pescatori sul molo, alla sera, da grigliare poi nel patio di casa, tra le rane saltellanti. Qualsiasi cosa si mangi, e qualsiasi posto si scelga per consumarla, sarà impossibile spendere meno di 20 dollari a testa.Ma quando i sandwich umidi fatti per risparmiare col tonno in scatola e il pane in cassetta del Mini Mart li mangi davanti alle acque turchesi della spiaggia di Twin Cove, sotto le palme di Rainbow Bay, sulla sabbia sottilissima e rosa di Harbour Island, allora va bene così: serve davvero poco altro.

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Qualcuno ci vive in questo paradiso. Ci vivono i bahamiani, possessori di una terra tanto dolce quanto scontrosa, ricca di bellezza ma povera di risorse, in balia di un clima imprevedibile e a volte crudele. E poi ci vive un anziano signore, dalla lunga treccia bianca e la pelle bruciata dal sole. Un accento ormai lontano che ricorda l’Europa. Ho salito i gradini di legno della sua palafitta nascosta tra le palme per chiedere aiuto quando abbiamo bucato una ruota cercando di raggiungere una spiaggia che poi non abbiamo raggiunto mai.

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 Più salivo le scale più l’afa diventava aria,e poi brezza, e poi vento. La casa stava a picco su una scogliera ornata da una spiaggia sottile e lontana, e niente, assolutamente niente, intorno. Solo verde, azzurro e il frastuono fortissimo dell’oceano. Lui era lì sulla soglia aperta, coperto da un leggero pareo sui fianchi. Mi ha spiegato dove prendere il suo cric e ringraziandolo mi sono allontanata in fretta, per non disturbarlo. A lui non interessava di noi e della nostra ruota.

Lui era in paradiso. Libero.

*VIRGINIA BOTTI CAFFONI (*Classe 1985, nata a Milano ma con l’Asia nel cuore. Vado in giro per il mondo da quando ho fatto la prima profilassi antimalarica e sto bene quando ho una matita e un biglietto aereo in mano)


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