El Che cicloturista. "I miei sogni non avranno frontiere"

 di MANUELA CASSARA' e GIANNI VIVIANI*

Cordoba, pur essendo la seconda città più importante dell’Argentina, l’avevamo scartata. Inizialmente. Poi c’eravamo informati meglio.

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(Downtown Cordoba                         foto di Gianni Viviani) 

Da Salta, al confine della Bolivia, avevamo dovuto passare già una prima volta per Buenos Aires e cambiare volo per arrivare a Mendoza, dove avevamo gironzolato tra le vigne del Malbec ai piedi dell’Aconcagua. Così avevamo anche scoperto che in Argentina, spostandosi in aereo, il più delle volte bisogna carambolare via Baires. Da Mendoza, volendo raggiungere San Carlos de Bariloche, porta della Patagonia, ci sarebbe toccato fare un secondo stop over a B.A e francamente volevamo evitarlo. L’altra possibilità era volare su Cordoba, darle un’occhiata e da lì proseguire per Bariloche. A uno sguardo più approfondito, Cordoba aveva mostrato alcune carte a suo favore: una pregevole architettura coloniale e la vicinanza, quaranta chilometri scarsi, con Alta Gracia. In quel piccolo comune dal clima salubre Ernesto Guevara aveva passato la sua cagionevole infanzia e adolescenza di malato asmatico, dal 1935 al 1943, quando il nostro eroe era ancora solo Ernestito.  E sempre da Cordoba, il primo gennaio del 1950, neo studente di medicina ventiduenne, era partito per iniziare il suo giro in bicicletta nel Nord Ovest dell’Argentina.  Un’altra tacca a favore di Cordoba.

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(La statua del Che ragazzino                    foto di Manuela Cassarà)

Caso vuole che il compagno di vita e viaggi, nonché nostro fotografo, sia un ciclista entusiasta e, a mio avviso, molto masochista,  come sono masochisti e entusiasti tutti coloro che praticano questo sport. Il sudore, i glutei doloranti, i crampi da acido lattico, la grinta per arrivare, la determinazione a vincere, erano medaglie che Gianni  sfoggiava con orgoglio, quando si accasciava sul letto distrutto dall’Eroica o dalla Nove Colli, o quando crollava in spiaggia, accaldato e disidratato, dopo essersi fatto, per tre ore sotto il solleone di Agosto i tornanti in salita del Mani. Oggi, con qualche acciacco che nel frattempo si è insediato, la passione apparentemente sopita è comunque latente, nonostante la polvere si stia accumulando sulle otto biciclette parcheggiate tra cantina, qualche amico ospitale e garage. Credo che preferisca vendere un rene piuttosto che darne via una. Anche se continua a ripetere che lo farà. Ma in quel febbraio del 2016 la passione ribolliva più che mai.

Avevamo scelto come base un piccolo albergo nella zona pedonale; il Sacha Mistol Art Hotel che aveva l’ambizione di definirsi primo e unico “boutique hotel” di Cordoba.  Si pregiava di avere le stanze affrescate da vari artisti, anche se non tutti eccelsi; un po’ pretenzioso, ma almeno diverso. Per andare ad Alta Gracia avevamo optato per un tour che si barcamenava tra il Sacro, visita all’insediamento diffuso dei Padri Gesuiti, e il Profano, visita alla casa diventata, nel 2001, il Museo di Che Guevara.  Via Avellaneda 501 è una stradina tranquilla in un quartiere per bene; file di villette alcune delle quali, quelle con piscina, dubito che esistessero all’epoca, più un unico, squallido negozio di souvenir dove l’immagine del Che viene venduta e svenduta su un merchandising scontato, poster, t-shirt, bandana, spillette, tazze da caffè, con punte oserei direi blasfeme: le espadrilles del Comandante potevano risparmiarcele.

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(Il Che in bicicletta    foto di Manuela Cassarà)

Una casetta come tante, con un giardinetto sguarnito e dieci stanze anonime.  Ci si accedeva dal patio, dove ci aveva accolti, seduto sul muretto in camicina, gilet e calzoncini corti, la statua del piccolo Ernesto.  Il percorso portava in cucina - era là che Ernestino era solito passare il suo tempo in compagnia della tata - poi in bagno, con una gigantografia di lui piccino, concentrato sul vasino. Nella sua monacale cameretta quei vestitini stirati e ordinati, sul letto, quelle scarpine bicolori, quel triciclo, quei pochi giochi arrugginiti, saranno stati davvero i suoi? Facciamo a fidarci.  Sulla scrivania una copia di Corazon. In copertina il disegno della Piccola Vedetta Lombarda, già ferita e dolorante. Mi piace credere che quel libro, proprio quello, non un altro andato smarrito, l’abbia davvero tenuto in mano, che lo abbia ispirato. Forse non a caso due tappe di quel suo giro in bici furono a Tucuman, travagliato punto di arrivo del racconto Dagli Appennini alle Ande.  

Nelle altre stanze bacheche e cimeli celebrativi. In una di queste, orgogliosamente tirata a lucido, la motocicletta, la famosa Norton 500 ribattezzata La Poderosa, mezzo che l’aveva accompagnato in quel lungo vagare formativo e emotivo nel continente Sud Americano raccontato nel suo “Latinoamericana, Notas De Viajo”,  diventato “I Diari della Motocicletta”, il film del 2004 di Walter Salles.

Nella stanzetta adiacente, la bicicletta: appoggiata al muro, accanto alle sue mazze da golf,  sotto la mappa del percorso, un loop di 4500 km da Cordoba a Cordoba, dalle pendici delle Ande al confine con la Colombia fino alle pianure della Pampa, fino alla capitale.

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(La bici del Che      foto di  Gianni Viviani)

Una bicicletta “customised” diremmo oggi. Dotata di un vigoroso telaio cittadino, di un classico manubrio da corsa, di copri ruota color ruggine, di battistrada a prova di sterrata,  di una sella a molle,  di luci a dinamo e pedali a gabbia; persino a me, profana, sembrava avere la necessaria resilienza per affrontare le Ande. Gianni la fissava con occhio clinico, così come fa con tutte le bici che incrocia, valutandone i pro e i contro. La pesantezza, per esempio. Se il motorino mi era sfuggito - il serbatoio della benzina l’avevo preso per un bussolotto porta attrezzi -  a lui, da iniziato, ovviamente no. Dopo un’occhiata all’itinerario si era esaltato per la lungimiranza del Che, anche se, con le bici assistite di oggi, da purista con il mito della fatica, ha il rapporto che ha il diavolo con l’acqua santa. A proposito del motorino, sembrano esserci diverse scuole di pensiero. Ho cercato di documentarmi ma posso solo riportare le alternative: c’è chi scrive che se lo sia montato da solo, chi che fosse il Cucciolo della Ducati; chi menziona un telaio Garelli,  facendo pensare al Mosquito, inventato dall’Ing. Carlo Alberto Gilardi, modello così avanti da rimanere in voga fino agli anni '70. Le date non coincidono esattamente, il Mosquito sembra risalire al 1960, ma la scritta appena visibile sembrerebbe dare credito a quest’ultima ipotesi.

Del giorno della partenza rimane una foto, sgranata, in bianco e nero, con Ernesto saldamente in sella, l’espressione determinata nascosta da un paio di occhialoni da sole, il giaccone di pelle vissuto, l’orologio al polso, la torcia in tasca, le mollette ai pantaloni, il copertone extra a mo’ di cartuccera, il borsone a bandoliera, la macchina fotografica, più svariati oggetti non meglio identificati che sicuramente avranno zavorrato ulteriormente l’andatura ma gli avranno fatto benedire la sua scelta, in quel saliscendi di alture, discese e sterrate.

 

Il Giro del Che

Dalle Ande alla Pampas

IL Che  sul vasino FILEminimizerjpg(Il Che bambino      foto di Gianni Viviani)

Quando tutto questo Covid sarà finito, e finirà, se qualcuno vorrà cimentarsi nell’impresa potrà ripercorrere questo itinerario-pellegrinaggio celebrativo. Quattromila e rotti chilometri sono tanti, il percorso è impegnativo, per di più non sono noti né la durata né le tappe intermedie né dove, quando o come il Che si sia fermato, ma solo le 17 tratte elencate nella mappa. Ho inserito le distanze, notevoli e molte impensabili da percorrere in giornata, ma ho indicato ugualmente il tempo dato da Google Maps.

Prima Tratta Cordoba -San Jose de la Dormida  126 km tempo 6 ore e 14min  sulla Ruta 9, quella che porta a nord; da tempo luogo di sosta nella tratta dell’antico Camino Real verso il Perù. Si possono visitare il parco Archeologico, le costruzioni coloniali, fare il bagno nella vicina Quebrada del Tigre.

Seconda Tratta, Leprosario San Francisco del Chanar, 72 km, 3 ore e 42 minuti, con deviazione sulla Ruta 22. Oggi Mision Cordoba convertito in presidio geriatrico, ci lavorava l’amico medico Alberto Granado,  futuro compagno dei Viaggi della Motocicletta. Racconta Alberto che Ernesto si prese una sbandata per Yolanda, una bella giovane lebbrosa che cercava in tutti i modi di uscire dal lebbrosario, facendogli gli occhioni dolci e  leva sul suo buon cuore.

Terza Tratta, Santiago dell’Estero, 251 km, 12 ore proseguendo sulla Ruta 9. La più antica città dell’Argentina, fondata a metà del 1500 dagli Spagnoli di ritorno dal Perù, e l’avamposto più meridionale della lingua Inca.

Quarta Tratta, San Miguel de Tucuman, 160 km, 7 ore e 57 minuti sulla Ruta 9. Quinta città del paese, citata nel suddetto libro Cuore, detta anche il Jardin de La Repubblica, oggi famosa anche per il suo Septiembre Musical.

Quinta Tratta Rosario de la Frontera, 126 Km , 6 ore e mezza, sempre sulla Ruta 9.  Del posto si sa poco, se non che ha un bel complesso termale, l’Hotel Termas, costruito a fine 1800, il primo in Argentina nonché il primo Casinò. Potrebbe rivelarsi uno stop rigenerante.

Sesta Tratta, Salta, 169 km, 9 ore, Ruta 9;  una molto gradevole e folkloristica cittadina coloniale, piena di vita e di atmosfera, che mi sento di raccomandare.

Settima Tratta, Jujuy, 93 km, 5 ore, Ruta 9. Non una città, bensì una Provincia, E’ probabile che il Che si sia fermato a San Salvador de Jujuy, usato come base, per poi proseguire per Purmamarca, 62 km,  percorso pianeggiante in un luogo mozzafiato, incastonato tra le rocce dei Sette Colori.   E sarebbe un peccato se non si fosse spinto anche alla spettacolare valle Quebrada de Humahuaca, 69 km km tutti in salita, altitudine 2957 metri, dal 2003 patrimonio culturale dell’Umanità. Il paesino, meta di tour turistici, è un’unica stradina di casette in adobe, fiancheggiata da file di negozi con i tipici, coloratissimi souvenir, e che termina nella piazzetta del cimitero.

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(I sette colori di Jujuy      foto di Gianni Viviani)

Ottava e Nona Tratta San Fernando del Valle de Catamarca. Andando oltre avrebbe sconfinato in Bolivia; ci andrà, come sappiamo, ma anni dopo. Il Che ritorna perciò sui suoi passi fino a San Miguel de Tucurman, (333 km, 16 ore) per proseguire (altri 225 km, 11 ore e mezza) fino a Catamarca, famosa per la sua architettura coloniale, e più recentemente per l’escursionismo in mountain bike e la degustazione dei vini.

Decima Tratta, La Rioja sulla Ruta 38,  155 km, 7 ore e mezza, ai piedi delle Sierras Velasco,

Undicesima Tratta, San Juan sulla Ruta 141. 438 km, 21 ore e mezza. Solo 6 anni prima, nel 1944, la città era stata distrutta da un terremoto che aveva decimato buona parte della popolazione. In seguito fu ricostruita con una planimetria di viali concentrici da un ingegnere Italiano di Pontremoli, Ezio Lorenzelli, chiamato nientedimeno che da Peron. Genio della fisica e non solo, su di lui bisognerebbe aprire un’ampia parentesi.

Dodicesima Tratta, Mendoza, 169 km, 8 ore e mezza sulla Ruta 153.  Città già citata in apertura, a ridosso del Cile, meta degli scalatori dell’Aconcagua, e come nel nostro caso dei degustatori del Malbec. Un luogo incantato, una specie di Shangrilà, non la città ma le pianure adiacenti, dove s’incontrano gauchos solitari, si sorseggia un rosso poderoso, ci si ferma per delle parrillas generose. Noi ci eravamo fermati da Nacho, ospite caloroso, nel suo Lujàn de Cuyo B&B, lontano dal frastuono cittadino.

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(Purmamarca     foto di Gianni Viviani)

Tredicesima Tratta, San Luis, 265 km, 12 ore e mezza sulla Ruta 7. Ai piedi della Sierras Grande, vicina al celebre Parque Nazional Sierra de la Quijadas, altro sito Unesco, istituito solo nel 1991: 1500 kmq di canyon dove sono stati ritrovati reperti  di 120 milioni di anni fa, del Basso Cretaceo.

Quattordicesima Tratta, Buenos Aires, 792 Km, 39 ore sulla Ruta 7. Un detour per i nostalgici, se si vuol essere fedeli all’’itinerario originale del Che.  E comunque la Capitale del Districto Federal è sempre un posto da non mancare.

Quindicesima Tratta, Pergamino 238 km, 12 ore sulla Ruta 8. Avamposto bonarense il cui Forte, costruito sul finire del 1700, divenne caposaldo per limitare le incursioni dei nativi. Sul finire dell’800, grazie alla ferrovia, la cittadina prosperò accogliendo migliaia di immigrati Italiani, Francesi e Spagnoli.

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(Merchandising sul Che      foto di Manuela Cassarà)

Sedicesima Tratta, Rosario, 113 km, 5 ore e mezza, inizialmente sulla  Ruta 32 e poi sulla Ruta 18. Tornando a casa, il Che fa la sua penultima tappa nella città  natale.

Diciassettesima Tratta, Cordoba, 398 km, 20 ore sulla Ruta 9. Dove tutto era iniziato.

“ La mia casa continuerà a viaggiare su due gambe e i miei sogni non avranno frontiere”.

Così fu detto. Così fu scritto. Così fu fatto.


*MANUELA CASSARA’ (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità  anche sul resto) 

*GIANNI VIVIANI (Milano 1948, fotografo, nato e cresciuto professionalmente con le testate del Gruppo Condè Nast ha documentato con i suoi still life i prodotti di molte griffe del Made in Italy. Negli ultimi anni ha curato l’immagine per il marchio Fiorucci. Ha anche lavorato, come ritrattista, per l’Europeo, Vanity Fair e il Venerdì di Repubblica. La sua passione più recente sono le foto di viaggio)


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