Duecavalli, Isotta, Trabant e Topolino: il museo delle star a quattro ruote
foto e testo di MANUELA CASSARA'*
Chi l’avrebbe detto. Di sicuro io no. Non essendo in età prepuberale, essendo priva di un qualsiasi interesse PER qualsiasi quattroruote, mai avrei pensato che un museo di automobili mi avrebbe entusiasmato. Mai avrei pensato che, a traino del beneamato compagno di vita, viaggi e racconti, in una grigia giornata post natalizia il Museo Dell’Automobile, detto MAUTO, qui a Torino, nostra città adottiva, sarebbe riuscito nell’intento. Città che, se non l’ha già, si meriterebbe di diritto il titolo di Capitale dell’Automobile. Non necessariamente per la FIAT, azienda che per inciso non amo, quanto per la sua storia, per il suo indotto, per i suoi visionari cittadini, intraprendenti creatori e precursori.
(Il foyer del museo)
Chi pensasse che, data la prossimità con il Lingotto, il Museo possa essere il tempio della suddetta, dovrà ricredersi, nonostante qualche zelante politico l’abbia dedicato a G. Agnelli. Una scelta sulla quale avrei parecchio da obiettare e sulla quale torneremo.
Ottanta le marche da ogni angolo del globo, duecento le autovetture d’epoca esposte; certo le FIAT ci sono, com’è giusto che sia, dato il ruolo storico, italico e mondiale; ma non predominano, non prevaricano.
L’edificio è bello di suo, con linee fluide e curve, progettato nel 1960 dall’architetto Amedeo Albertini e con una superficie raddoppiata nel 2011 dall’intervento dell’architetto Cino Zucchi per i 150 anni dell’Unità di Italia, rivalutato dall’investimento di 33 milioni di euro e dal make-up dell’attuale percorso, opera dello scenografo franco-svizzero François Confino. Percorso multimediale, interattivo, che racconta la storia, le origini, le evoluzioni, i passaggi epocali e sociali, gli aspetti creativi, ludici e tecnici, cosa che gli varrà, due anni dopo, il plauso del Times, che lo classificherà al cinquantesimo posto tra i Musei più belli del mondo.
(Il Carro di Leonardo da Vinci)
Visto che tutto è scritto, organizzato e ben documentato, e che ogni cosa si può trovare elencata, catalogata, fotografata, su www.museoauto.com, non mi dilungo nei dettagli. Il sito lo fa con cognizione di causa. Io mi limiterò alle curiosità, alle ingiustizie, a descrivere quello che mi ha emozionato. Aggiungo, per gli amanti degli approfondimenti e dei dati di fatto, che sempre dal sito è possibile scaricare l’App , mentre in loco si può disporre di Audioguide: in Inglese, Spagnolo, Tedesco, Francese, Portoghese, Russo, Cinese, Giapponese, nonché Arabo, Croato e persino Rumeno. Ce n’è una a misura e interessi dei più piccini. Questo per dirvi che è tanta roba. A cinque euro per gli adulti e quattro per i bambini, trovo che venga via con poco.
La visita guidata di 75 minuti immagino che la facciano fare sui pattini, perché coprire quei 200.000 metri quadrati, su due piani, con quei percorsi labirintici che mi ricordano l’Ikea credetemi, chiede il suo tempo. Richiede attenzione e dedizione. E richiede a mio avviso, di tornarci.
Volendo si possono scegliere svariati tour guidati, classici o addirittura personalizzati, a gruppi e/o a tema, alcuni dai titoli evocativi. Ovviamente non ne abbiamo fatto uno, di tour, come nel nostro stile, che è quello di deambulare, superficiali e curiosi, là dove ci portano il caso e il cuore.
Si inizia dal secondo piano, a scendere. Subito sulla sinistra, si parte da lontano, con la riproduzione del carro a molla di Leonardo, AD 1478, ideato per animare le feste di corte, anche se non mi è chiaro come, a meno che, forse, per trasportare gli alticci cortigiani da una parte all’altra del castello.
Ci accoglie molto convincente l’ectoplasma o piuttosto l’ologramma, di Carlo Biscaretti di Ruffia, che fu il vero deus ex machina del Museo; sebbene un po’ del merito ce l’abbia anche il padre Roberto, auto-amatore, senatore, co-fondatore della FIAT, per avere solleticato la curiosità del figlio, regalandogli quello che sembra il bisnonno del Ciao: una specie di triciclo con un rudimentale motorino.
(L'ologramma di Carlo Biscaretti di Ruffia)
Biscaretti le sue passioni le coltivava con coerenza e determinazione; oltre ad aver organizzato, nel 1933, una prima esposizione di vetture storiche, a essere tra i fondatori dell’Automobile Club di Torino, ad aver partecipato al primo Giro Automobilistico d’Italia, ad essere stato tra i primi ad avere la patente, ad avere il pallino per il Design tanto da fondare un suo Studio Tecnico di Disegno e Grafica pubblicitaria - il suddetto Carlo fortissimamente volle, da subito, un Museo Dell’Automobile. Presentato il progetto a Mussolini, che disse sì, i bastoni tra le ruote, è il caso di dirlo, ce li mise, invece, il senatore Giovanni Agnelli Senior, sostenendo ufficialmente che la tecnologia italiana dell’epoca ci avrebbe solo fatto sfigurare in mezzo ad altre aziende più avanti. Forse. Ma ufficiosamente, pare si trattasse di soldi: quelli che gli Agnelli avrebbero perso nel cedere, ad un prezzo calmierato, il terreno scelto per il Museo. Quindi tanto fece, tanto brigò che, sfruttando le sue altolocate aderenze in Comune, riuscì a farlo arenare in un limbo burocratico per cinque anni. Alla fine un primo Museo si fece, in periferia, confinato nei fatiscenti, insufficienti locali dello Stadio Benito Mussolini, dove poterono essere ospitate solo 83 delle 180 macchine collezionate da Biscaretti. Museo che partì e visse in sordina, ignorato dai più, salvo qualche tifoso che, nell’intervallo della partita allo stadio, ci capitava per ammazzare il tempo.
(Al montaggio)
In quanto a quello attuale, più o meno come lo conosciamo, fu aperto al pubblico nel Novembre del ‘60, a riprova della caparbietà, ma anche della sfortuna di Biscaretti, il quale, pur non avendo mai smesso di lottare e di sperare, non ne vide l’inaugurazione, perché nel frattempo era morto. Feroce ironia della sorte, a riprova di come, contro il potere, poco può il singolo, per quanto determinato, nel 2011 il Museo venne dedicato postumo a Giovanni Agnelli, lasciando al povero Biscaretti solo un salone, un bel busto all’entrata e l’impersonator olografico. Mi sembra perciò che sia giunto il momento di dare a Carlo quel che è di Carlo: di riconoscergli cioè la paternità del Museo dell’Automobile. Che giustizia sia fatta, almeno inter nos.
Alla sezione L’Automobile e il ‘900 sono dedicate le 21 sale del secondo piano; aprono la carrellata dei buffi trabiccoli che paiono disegnati da Archimede Pitagorico e che, da fine ‘700, si evolveranno fino a diventare dapprima carrozze senza cavalli, poi spartane due posti aperte agli elementi, infine lussuose automobili a misura di pochi eletti - rampolli rubacuori, ricchi imprenditori, madame e mantenute affascinanti - i soli a potersele permettere. Esemplari tirati a lucido, senza un graffio, come freschi di carrozzeria: Peugeot, Benz, Decauville, Olds Mobile, Orient Express Duchess, Opel, Rolls Royce, Bentley, Ford, Buick, per citare quelli stranieri a me più noti, evitando quelli che, da profana, non mi dicono nulla.
(La Topolino)
La collezione pre-bellica, sia la prima fino alla seconda, prosegue di sala in sala, in un’alternanza di modelli e provenienze, dove le nostre, e lo dico con italico orgoglio, sono la maggioranza e si distinguono per eleganza: le mitiche Isotta Fraschini, avveniristiche per glamour e concezione, dai freni anteriori agli 8 cilindri; le Lancia, le Bugatti, le Maserati e le Alfa Romeo. E ancora la FIAT, con i suoi cavalli di battaglia, le due utilitarie che hanno cambiato le aspirazioni di un popolo: la storica Balilla del’32, un best seller di 110.000 unità, a cui fece seguito la Topolino, una 500 nel ‘36 che, in un ventennio, arrivò a vendere 500.000 esemplari.
(L'Isotta Fraschini)
Tra le Itala, una soprattutto: l’avventurosa 35/45Hp ribattezzata Pechino-Parigi in onore di quel Raid di 16.000 km fatto in 60 giorni dal Principe Scipione Borghese, dal meccanico Ettore Guizzardi ma soprattutto da Luigi Barzini. Che poi era l’unico che contasse, per mia madre; me ne parlava come di un personaggio uscito da un libro di Liala: colto, affascinante, elegante. Mai galante, teneva a precisare con pruderie, per scongiurare ogni maligna illazione, sebbene fosse molto carina, avesse solo 23 anni e fosse la sua segretaria, al Globo. Un gentleman, non un Weinstein. Era protettivo piuttosto, quello sì, al punto da accompagnarla a casa quando slittava la chiusura del giornale, ma niente di più. Di una cosa, soprattutto, si vantava mia madre, che era pure un bel peperino: di aver liquidato con un “Beh, insomma” la bozza di un libro - quale non saprei, non era mai molto precisa- che Barzini le aveva fatto leggere in anteprima. Al che il povero, sconsolato, pare abbia commentato: “Certo che se non piace nemmeno alla mia segretaria”… Ripensandoci non era gran complimento nemmeno il suo.
E’ arrivato il momento di mettere il turbo per mantenere il mio intento, e limitarmi a citare quanto mi ha colpito di più: la piccola Isetta, una scatoletta detta anche Moto Coupè, prodotta in Italia dalla Iso su licenza della BMV e design di Michelotti. Guardatela e ditemi se non vi ricorda la Smart.
(La piccola grande Isetta)
Darei il premio simpatia alla Trabant, progettata nella DDR negli anni’50 e prodotta fino alla riunificazione. Un trabiccolo destinato al popolo, evitato per ovvi motivi dalla nomenklatura. Utilitaria a tutti gli effetti, funzionale, indistruttibile; realizzata in duroplast, un composto di lana e/o cotone impregnato di resine, isolante, termico, inossidabile, non degradabile, non deformabile. Insomma, pericolosamente eterno. Era più facile sostituire il motore con uno qualsiasi, che ripararne la carrozzeria. Di certo non era un bolide: 29 secondi da ferma, per fare i cento all’ora. Ma aveva altre doti. Per esempio era rumorosa e davvero molto fumosa. Si viaggiava accompagnati da una sputacchiante nuvola grigia. Sempre Time, pubblicazione che ama le classifiche, l’ha inserita tra le peggiori cinquanta macchine mai realizzate. Sicuramente avrebbe vinto il premio: Miglior Inquinamento.
(La Trabant)
E a proposito d’inquinamento, sorprende, almeno a me ha sorpreso, vedere che la FIAT, sì proprio quella Fiat che si è fatta tanto pregare per realizzarne una, facendosi superare da tutti, già nel 1993 avesse provato a lanciare la Downtown, una utilitaria elettrica, con un’autonomia di tutto rispetto: 190 km su strada e 300 in città. Ma pare il mercato non fosse pronto. Ancora non si parlava di catastrofe climatica. Ancora “anche noi facciamo qualcosa per il pianeta” non aveva assunto valenza di marketing. Nel 2000, la FIAT ci aveva riprovato con la EcoBasic, una due volumi cittadina, con cambio robotizzato, tre litri di gasolio ogni cento chilometri e costi contenuti. Che fine avranno mai fatto quei progetti? Sospetto che, come l’Arca dell’Alleanza nel film di Indiana Jones, li abbiano seppelliti in qualche polveroso magazzino del Lingotto, stipati in casse di legno.
(L'EcoBasic)
Glisso, anche se è sacrilego, ma lo faccio per ignoranza, su tutta la parte post bellica, gli anni ’50 e 60, con la sezione Americana che ha esaltato il mio compagno di vita, uno si venderebbe la casa per una Cadillac; ma non posso dimenticare la Due Cavalli della mia giovinezza Peace and Love, o il Maggiolino, perché in quelle macchine ci sono pezzetti di vita.
(La Due Cavalli)
Quando si passa accanto alla Citroen DS 19, tutti e due ci siamo inchinati. Sembra pronta a spiccare il volo, così appollaiata su una specie di trespolo che solleva da terra: la Deesse, la Dea, in Francese. Detta anche The Shark, Lo Squalo, per quella sua forma aerodinamica. Data di nascita 1955, dopo 18 anni di progetti rivisti e scartati, fino al parto con, come genitori, il progettista André Lefèbre e il designer Flaminio Bertoni, senza dimenticare l’ideatore di quelle sofisticate sospensioni oleopneumatiche all’azoto, Paul Magés. L’aveva mio zio, che abitava a Montecarlo, e mi ci scorrazzava: quel su e giù soave, quando si fermava e parcheggiava, ancora me lo ricordo, ogni volta mi meravigliava, andare era anche un po’ giocare.
(La Deesse)
Nonostante l’overdose di stimoli e la stanchezza che si fa sentire, raccogliamo le poche energie rimaste per affrontare il primo piano, quello intitolato all’Automobile e l’Uomo; il più ludico, il più tematico, il più tecnico. Una mini Adventureland dedicata alla produzione, alle catene di montaggio, alla sicurezza, alla pubblicità, all’esaltazione del coraggio, dell’innovazione, della velocità: le corse, i percorsi, le vetture dei più grandi piloti, Nuvolari, Fangio, Villeneuve, Senna, Schumacher, le loro divise, le loro sagome a misura reale. Qui, nella cosiddetta Zona Formula, volendo, si possono organizzare eventi esclusivi, circondati da bolidi fiammeggianti; 150 persone ci stanno, forse anche distanziati socialmente.
(Formula Uno)
Sempre al primo piano anche le mostre temporanee, gli allestimenti a durata limitata. Quella dedicata a Diabolik fa la sua bella figura, in concomitanza con il lancio del film e della mostra dedicata alla Mole: meglio affrettarsi se si vuole ammirare la mitica Jaguar E-Type e il più abbordabile neo nato cinquino Diabolika, dalla carrozzeria nero opaca, le pinne posteriori rosse, i battistrada con disegnata la mascherina di Diabolik, i sedili con i due protagonisti serigrafati in bianco e nero, lo “squarcio” sulla tendina parasole e il “bottino” nei cassetti portaoggetti con cristalli Swarovski. Il tempo scade il 6 Marzo 2022.
(La Diabolika)
Dulcis in fundo, il ricordo per la figura di Giovanni Michelotti, nella personale Michelotti Word. Grande stilista dell’Auto, prematuramente scomparso negli anni ’80, a soli 60 anni; nasce umile apprendista negli stabilimenti Farina, dove inizia a lavorare con ancora i calzoni corti e un ruolo da magut. Il destino lo chiama quando il figlio del padrone, che lo aveva visto disegnare nelle pause, gli chiede di sostituire il disegnatore a cui faceva da garzone: lui che di lavoro temperava matite e metteva i fogli sul tecnigrafo. Fiducia ben riposta e occhio lungo da parte del giovane imprenditore, perché quel neofita autodidatta fece l’impossibile: realizzare in scala 1:1 il telaio di una Alfa Romeo 6C 2500.
(Michelotti world)
Un talento naturale, un genio di cui, nella mia sempre grassa e diversificata ignoranza, non sospettavo l’esistenza, che mi ha ammaliato, sedotto, conquistato, con i suoi disegni, i suoi modelli, il suo lavoro conclusosi troppo presto, al servizio dei più prestigiosi marchi del settore: la BMW e la suddetta Isetta; la Triumph, tra l'altro la Spitfire, la Reliant, la Fiat naturalmente, la Lancia Aurelia, la Maserati 5000 GT. Suo anche il LEM (Laboratorio Elettrico Mobile) antesignano delle vetture elettriche, presentato nel 1974 al salone di Ginevra. Avveniristico nel concetto, nel nome e nella forma, che richiamano il modulo lunare. Un precursore visionario che aveva capito tutto. Se possibile non vi fate scappare questa presentazione che termina il 20 Febbraio.
(Il Lem)
Concludo con un piccolo aneddoto, così, per riportarci, qui e ora, nello spirito del tempo.
C’eravamo fermati, folgorati, davanti alla Colani Lamborghini Miura, un avveniristico modello simil uovo sodo, color giallo zabov e bianco albume, dalla forma futuribile, quasi inspiegabile; una concept car realizzata con la logica del Biodesign da Luigi Colani, da cui appunto il nome. Concepita per gareggiare a Le Mans, considerata una delle vetture più belle mai disegnate, rimasta nascosta per una trentina d’anni in America, per poi essere riscoperta, restaurata e acquistata da un collezionista in Germania.
(Chevrolet, la più amata dagli americani)
Siamo solo noi due, fermi ad ammirarla, basiti dalla bellezza, dall’ingegno, dalla sua perfezione, quando ci si affianca una procace ragazzetta dall’aria annoiata. Annoiata fino a quando l’occhio le cade sul nome: Lamborghini Miura. In quel silenzio finora ovattato, parte un urlo eccitato “Guaaaardaaa - grida al fidanzato - guardaaaa! E’ la macchina di Elettra!!!”
In un certo qual modo, non ha torto.
Perché l’Elettra in questione, che all’anagrafe fa effettivamente anche Miura e di cognome, beata lei, appunto Lamborghini è quella Elettra di cui si parlò per l’incidente sexy sfiorato a Sanremo 2020, una burrosa influencer canterina, famosa forse più che per la sua ugola per il suo twerking, che poi sarebbe, tradotto, quel suo sculettare. A ognuno i miti che si merita, verrebbe da dire.
*MANUELA CASSARA’ (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità anche sul resto)
clicca qui per mettere un like sulla nostra pagina Facebook
clicca qui per rilanciare i nostri racconti su Twitter
clicca qui per consultarci su Linkedin
clicca qui per guardarci su Instagram
e.... clicca qui per iscriverti alla nostra newsletter