DA .... A..... / Napoli-Pompei, noia da Circumvesuviana

di GOFFREDO LOCATELLI*

Ferrovia Circumvesuviana, terminal di Porta Nolana, binario sette. Monto con una borsa piena sul treno Napoli-Pompei delle ore 19,11 e siedo in fondo alla prima carrozza. Accanto a me, sul lato destro, un uomo di mezza età apre la cerniera del sacchetto a spalla, infila una mano e tira fuori un libro di Ken Follett di almeno mille pagine. Legge a testa china. Tra i denti mastica una gomma che gli mette in evidenza la lieve traccia dei muscoli facciali. Ha i capelli fitti di un argento cupo, il viso liscio trafilato in serie. Indossa una maglia verde da cui si svasa una camicia a righe sottili nere e blu, un giaccone a trapunta color cammello, pantaloni cremisi e mocassini di camoscio color ghiaccio.

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Osservo dal mio sedile una coppia di ragazzi sulla piattaforma, sono pieni di energia, di giovanile esuberanza. Nella penombra lei gli si avvinghia, poi si stacca e lo guarda con grandi occhi famelici, arretra e avanza in un sorriso lieve di spensieratezza, se lo tira per un braccio, poi si stira e s'allunga sulla punta dei piedi: ha fame di baci. Lui acconsente. Tutt’a un tratto mi sento felice, la cosa mi diverte, il mio senso estetico coglie i particolari. Al diavolo, mi dico, di che mi stupisco, sarà una storia d’amore. Alla prima fermata lei scende. Il ragazzo, capelli corti e faccia purpurea, viene dentro: il sedere gli casca con un tonfo sul posto dirimpetto al mio. Ha un viso che fa pena, due occhi lucidi dietro lenti da miope e una felpa nera con la scritta “Delta Division Power”. Mostra subito un'antipatia per i suoi dirimpettai, si soffia il naso con un kleenex e s’immerge nelle ultime pagine di non so quale libro.

Alla fermata di piazza Garibaldi il treno è assaltato da un fitto sciame di viaggiatori-cavallette: la porta si blocca e in mezzo a urli, calca, spintoni, succede di tutto. Chi arriva tardi, resta fuori. Spinti da dietro, i primi si precipitano a occupare i pochi posti liberi. È tutto un confuso parapiglia di pendolari condannati alla solita alternanza di bestemmie e invettive, infagottati dentro la fatica. Scruto le facce nel corridoio. Facce sfiaccate, depresse: mi domando che avrà la mia di diverso rispetto alle altre. Difetto per difetto, cerco l’unicità dei volti altrui perché la faccia è un palinsesto che si costruisce nel tempo, se la sai leggere racconta le storie che noi, giorno dopo giorno, vi scriviamo.

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Una donna bionda mi scavalca frettolosa e, col gesto di raddrizzare un torto, mi calpesta ambedue i piedi. La camicia e i jeans un po’ si riempiono della sua flaccidezza, del busto consistente, dei fianchi imbottiti. Scusi, sussurra senza guardarmi, e con una forma di evidente sofferenza s’accascia sul sedile. Accavallate le gambe, mette in mostra un polpaccio lucido e sodo, mi siede accanto con la disinvolta abitudine di chi viaggia ogni giorno. Arretro premendo sul sedile, raddrizzo le spalle e torco lo sguardo per lei. Ha uno chignon banana slanciato verso l’alto e arrotolato a guscio di lumaca, ma è una bionda finta. Sento l’odore lieve della traspirazione e ne osservo il viso paffuto, popolaresco, la lentezza dei gesti mentre estrae dalla borsetta a tracolla un minuscolo Mp3 con gli auricolari. Un attimo o due, e subito la distrae il cicaleccio del telefonino. Via le cuffie, va avanti con quattro o cinque frasi irrilevanti, e dopo un ritardo artificiale sibila delle rozzerie con una voce che somiglia allo squittio di un surmolotto. Basta così, chiude, alza e abbassa il gomito, estrae la Settimana Enigmistica, la scarabocchia con qualche accenno di interesse. Le osservo le unghie, sono ben curate, come dichiara lo smalto bianco sulle punte.

Dal fondo della carrozza avanza il tremolo gentile di un focoso cha cha cha. E un suonatore di fisarmonica dalla faccia secca che si piega, ondeggia e si spella i polpastrelli sui tasti. Gli fa da spalla silenziosa una ragazzina sui dieci anni che, vestita di stracci, procede nella più totale miserabilità tenendo in mano un bicchiere di plastica utilizzato per le offerte. Le metto gli occhi addosso per vedere se riesce, col tintinnio delle monete nel bicchiere, a far breccia nell’indifferenza dei viaggiatori alla sua pena. L’intermezzo musicale mi azzera la monotonia del viaggio. E’ un’innovazione interessante. A distanza ravvicinata la ragazzina mi fissa e mi piazza il bicchiere sotto il naso: “Ti piace la musica?”, dice la sua mimica maliziosa, “e se ti piace tira fuori qualche soldo...”. Certo, ci tengo alla mia onestà: per saldare il debito musicale frugo nella tasca dei pantaloni e le stendo una moneta da cinquanta centesimi, gli stessi cinquanta centesimi che una volta erano mille lire. A Torre Annunziata il suonatore, forse un rumeno, cambia vettura. E mentre lui scompare il treno mi rimanda ai timpani il suo concerto di sferragliamenti con l’ottusa cadenza di una rumba.

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 Vedo già nel finestrino la cresta sbavata di Villa dei Misteri con la vecchia stazioncina che mi viene incontro in un’aria stinta. Scendo dal treno intontito e mi ci fermo: non ho alternative, piove. Salgo i due scalini della sala d’aspetto, spingo la porta, e la porta mi rimanda un lieve gemito. Una luce a fiotti precipita dal soffitto giù per le pareti stinte. L’impatto è perfetto, non c’è anima viva. I due telefoni a gettoni, verifico, sono regolarmente fuori uso. Mi muovo in libertà, il mondo è sparito. Niente ubriachi, errabondi, gay e prostitute, abitualmente in servizio. Pompei delle mie brame, dove sei finita? Impara qualcosa, povero scemo, hai davanti a te duemila anni di storia. Mi precipito fuori, ah, benedetta l’aria fredda sulla soglia. Guardo il muraglione scorticato degli scavi che fa da sipario a un teatro d'ombre e io arranco dietro le fantasie dell’ignoto mistero. Addio, puelle dei lupanari, ora il compiaciuto benessere di questa città cresce sugli alberghetti a ore: da venti euro in su. I falli scolpiti sulle pietre e i graffiti con le parole fortuna e felicità sono stati rimpiazzati dalle suppliche alla Vergine del Rosario. Come che sia, ripenso agli scavi e alla gente che ci viene, a Bill Clinton che addentava una pizza e a George Bush che ha pianto sulla spalla di Dio. È un’operazione tonificante, mi rimanda all’ultima volta che ci entrai. È trascorso molto tempo, da quando vagolavo tra i decumani risonanti di echi...

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Che serata. L’attesa è insopportabile, lascio in libertà i pensieri perché è la cosa più salutare. Mi fermo la seconda volta sui gradini a immaginare i vicoli avvolti nell’oscurità. Dalla porta a vetri fanno capolino tre anime risuscitate, sono già in sala d’aspetto, hanno le sembianze di randagi che avanzano senza un perché. Fantastico, ehilà che fate a quest’ora? Uno si è infilato tra le due file di sedili al centro della sala, un altro, di pelo corto bianco con orecchie a sventola marroni, si lecca una zampa accucciato in uno spigolo. E il terzo mi corteggia, senza pudore. Tempi di magra, amico mio, che ti do? Lui mi capisce, e trattosi in disparte si stende sulla polvere assopita sotto il sedile. La finestrella della biglietteria ritaglia il mezzo busto di un uomo incollato a un piccolo televisore: dall’altra parte del vetro mi getta addosso due occhi di Budda e non si muove, ha l’indolenza di chi è sopraffatto dall’incongruo rovello di Baudelaire, la noia, il mostro della vita che s’inghiotte il mondo. Non c’è da stupirsi. Il bar, l’edicola, la tavola calda, i chioschetti con le arance e i limoni appesi sono chiusi mentre io, bloccato dalla pioggia, lavoro di cervello per motivi che ora non ricordo più. Nella strada transitano automobili che creano un inutile baccano, sui motel di Porta Marina lampeggia una fosforescenza azzurrina. Che faccio? Mi trovo in un piacevole stato di vacuità mentale, fuori un vento fastidioso spara raffiche di pioggia fra una fila di oleandri neri. Sorpreso dalla mia afasia, il genio della lampada capisce che ho voglia di volare e srotola ai miei piedi il tappeto di Aladino.


 *GOFFREDO LOCATELLI  (Giornalista e scrittore, è nato a Sarno dove suo nonno, ufficiale dei carabinieri, arrivò da Bergamo. Iniziò la carriera al quotidiano Paese Sera ed ebbe per direttore Arrigo Benedetti. Ha scritto anche per l'Unità, la Domenica del Corriere, il Mondo, il Globo, l’Espresso, Panorama, la Repubblica, il Mattino e, come inviato speciale, per i giornali del gruppo Class - Milano Finanza. Per i suoi articoli sul terremoto in Irpinia del 1980 fu insignito della Medaglia al Valor Civile. Dalle cronache di inviato nelle zone devastate dal sisma nacque il suo primo bestseller Irpiniagate- Ciriaco De Mita da Nusco a Palazzo Chigi (Newton Compton, 1989) 


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