Cuba, un cimitero per capirla

di GIORGIO OLDRINI*

“Le spiagge di Cuba sono bellissime, ma se vuoi capire meglio l’isola ti porto io a visitare il Cimitero, l’unico al mondo intitolato a Cristoforo Colombo”. Ero arrivato all’Avana da poco ed avevo subito conosciuto Mario Segre, uno dei pochissimi  italiani che allora vivevano laggiù. Lui era il più anziano. Era stato negli anni ’30 tra i fondatori del giornale economico “Il Sole”, poi era fuggito in Argentina dopo che Mussolini aveva promulgato le leggi razziali. Era poliomielitico fin dalla nascita Mario, ma aveva affrontato ogni sorta di avventura con naturalezza e coraggio, afferrato alle sue stampelle. A Buenos Aires aveva avuto due figli e quando il maggiore, Roberto, era diventato architetto e aveva deciso di andare a Cuba “ad aiutare la Rivoluzione di Fidel”, anche il padre si era aggiunto. All’Avana faceva il traduttore di libri e scriveva racconti per i bambini, mentre il figlio era diventato uno dei più autorevoli docenti di architettura dell’America latina. Tra i due c’era uno stravagante rapporto di affetto e gelosia. “Mio figlio? Ottimo teorico, ma non ha mai costruito nemmeno una cuccia per cani”. E Roberto sbuffava.

Un secondo italiano all’Avana in quel 1975 era Piero, un bolognese che era stato un giovanissimo partigiano e che poi dopo il 25 Aprile era entrato in un gruppetto che cercava di impedire in ogni modo che alcune spie dell’ Ovra venissero riciclate dagli Stati Uniti. “In alcuni casi ci siamo riusciti”, diceva con una certa reticenza rivoluzionaria. Piero era il comunista allo stato puro, entrava in casa mia e se aveva sete o fame andava al frigorifero senza chiedere permesso. Ma pretendeva che a casa sua io facessi lo stesso. “Siamo compagni, e i compagni dividono tutto” diceva. Era stato arrestato nel 1948, evaso da un carcere della Campania con una fuga da film, passato in Cecoslovacchia e poi a Cuba invitato dal Che Guevara. Ne era diventato l’interprete di cecoslovacco e di italiano. “Ho fatto solo la quinta elementare in Italia e a Praga ho imparato la lingua lavorando in fabbrica”,  si era schermito quando il Che gli aveva chiesto di lavorare per lui. “Le parolacce le sai?” “Beh, quelle sì” aveva ammesso Piero. “Allora va bene. I cechi mi dicono coglione e io non capisco niente e sorrido. Almeno uno che mi avvisi ci vuole”. Parlava a ragion veduta il guerrigliero che era andato a Praga come ministro, ed aveva acquistato quelli che gli sembravano trattori buoni per i campi da zucchero tropicali. Ma quando erano stati sbarcati dalla nave della nazione “sorella nel socialismo” si erano rivelati spazzaneve.

cuba 2jpg

(L' Avana                    foto Pixabay)

Un terzo italiano era Bruno, un biochimico di grande livello che era arrivato a Cuba sull’onda del ’68 e che aveva costruito dal nulla uno dei laboratori di ematologia più importanti del continente. Grazie alle sue conoscenze in mezzo mondo riusciva a far arrivare nell’isola macchinari e materiali eludendo il blocco degli Stati Uniti. Non solo, aveva creato un gruppo di tecnici e di professionisti locali senza pari in America latina. Amava venire a casa nostra per discutere fino a mattina di politica con me o di biologia con mia moglie biologa, prosciugando le nostre poche riserve di rum. Un uomo di una dolcezza infinita con una moglie attrice televisiva, una mulatta bella e colta. E una Fiat 500 che i bambini chiamavano “la cucaracha”, lo scarafaggio. Aveva trovato solo pneumatici troppo grandi e quando andava in rettilineo tutto bene, ma se doveva girare la vetturetta produceva sinistri stridii.

Un giorno partimmo per il Cementerio de Cristobal Colon risalendo la Rampa, la strada principale dell’Avana nuova, fino all’incrocio con la strada 12, proprio dove Fidel a poche ore dall’invasione della Baia dei Porci aveva dichiarato la natura socialista della Rivoluzione. Io alla guida della Volkswagen che l’Unità mi aveva fatto arrivare all’Avana a bordo di un improbabile mercantile jugoslavo che aveva impiegato più tempo ad attraversare l’Atlantico di quanto era stato necessario 500 anni prima a Cristoforo Colombo. Mario seduto al mio fianco, con le sue inseparabili stampelle costruite da un cubano, meccanico di mestiere ma tuttofare per necessità. Del resto la vera parola d’ordine dell’isola era “Hay que inventar”, bisogna inventare, e le stampelle di Mario ne erano una prova visiva, metà in legno e metà in ferro.

Il Cimitero mi era sembrato subito immenso, 57 ettari, e per entrare si passa sotto una enorme struttura di marmo di Carrara, lunga 34 metri ed alta 21 con scolpite le virtù teologali, carità, fede, speranza. Dentro è come un accampamento romano, due grandi strade che si intersecano, con tombe antiche e moderne, dagli stili più diversi, che spesso nel passato replicavano in piccolo quella che era stata la residenza in vita del defunto.

La prima visita fu alla tomba de la Milagrosa. “E’ la Cuba bianca, cattolica e superstiziosa di decenni fa che si prolunga nel socialismo” spiegava Mario. In realtà lì giace Amelia Goire de la Hoz, morta il 3 maggio 1901 di parto. Con lei era stata seppellita, tra le sue gambe, la bimba nata e subito morta. Ma quando anni dopo la tomba era stata aperta per seppellire il suocero di Amelia, la piccola era tra le braccia della madre. Un miracolo, avevano subito dichiarato preti e laici e così la tomba era diventata meta di donne che non riuscivano ad avere un figlio, di madri angosciate per problemi dei figli, molte portando ex voto, fiori, targhe. Non solo. Dato che il marito di Amelia era uno spagnolo benestante e cavaliere, innamoratissimo della moglie anche dopo la sua morte, faceva spesso visita alla tomba. Ma si avvicinava e se ne andava senza mai dare le spalle all’amata, come un vero hidalgo, e quando arrivava scuoteva le catene che adornavano i marmi, come per dire “sono qua”. E le donne che andavano a chiedere miracoli seguivano per filo e per segno quel rituale. Mai girare le spalle ad Amelia e all’arrivo, come prima cosa, scuotevano le catene.

Poi è arrivata la Rivoluzione, almeno all’inizio in violenta polemica con la Chiesa cattolica e in lotta contro le superstizioni. Ma la Milagrosa ha fatto anche il miracolo di continuare ad essere meta ininterrotta  di donne che sperano di avere un figlio grazie a lei oltre che ai miracoli della medicina, o di madri angustiate per qualche problema dei figli.

Milagrosajpg

(Particolare de la Milagrosa)

“Andiamo” mi guidò Mario, e si avviò ondeggiando sulle stampelle. Poche decine di metri più in là “c’è la Cuba nera, delle religioni afro, del sincretismo, quella della tomba del Tata Josè, el Hermano Josè”. Come succede spesso nel sincretismo cubano, i sessi si incrociano, perché la tomba del fratello Josè in realtà è quella di una donna, Leocadia Perez Herrera. Sì, perché nel XVI secolo quando l’Imperatore spagnolo d’accordo con il Papa proibì agli schiavi neri di venerare i loro dei, gli africani strappati alle loro terre impararono a nascondere dietro i santi cattolici le divinità arrivate sulle navi negriere insieme a loro. Ma a volte confusero i sessi. Così il dio principale della santeria, Changò, padrone del fulmine e dell’amore carnale, rosso come la passione, si cela dietro Santa Barbara; e che dire di Obatalà, creatore della Terra, signore dei pensieri e dei sogni, che è la Vergine de las Mercedes. E se non sbagliano sesso, a volte fanno paragoni arditi, perché la santa protettrice di Cuba, la Virgen de la Caridad del Cobre, è Ochun, donna sì, ma protettrice dell’amore carnale.

Dunque non sembrerà strano che lo schiavo afrocubano dell’800 “Fratello Josè”, che nei decenni ha posseduto, secondo quanto credono i suoi seguaci, 59 persone, per l’ultima volta si sia identificato proprio con Leocadia. Una donna del quartiere della Vibora che la mattina si affacciava dalla sua casa e ai molti che aspettavano le sue parole miracolose rispondeva con la voce maschile di Josè, venuta direttamente dall’800. E prima di tutto sceglieva quelli che avevano diritto ad entrare, perché sapeva chi aveva davvero bisogno del suo aiuto e invitava gli altri ad andarsene a casa.

Quando Leocadia è morta la sua tomba è diventata meta del pellegrinaggio incessante dei fedeli di un sincretismo più forte di ogni razionalismo. I neri che vanno a trovarla prima di tutto accendono un sigaro e lo lasciano lì fumante insieme ad altri ex voto. Compresa la musica, perché attorno alla tomba si balla e il 19 marzo, giorno della morte di Leocadia o dell’ultimo, per ora, Tata Josè, si fa festa grande, persino con un concerto di violini.

“Hai visto varie Cuba oggi, qui al Cimitero di Colon. Ma se ci tornerai ne troverai tante altre ancora”, mi disse Mario mentre ci avviavamo all’uscita. “Perché questa è terra di mescolanze infinite. Belle le spiagge, ma qui è la Cuba profonda”.


*GIORGIO OLDRINI (Sono nato 9 mesi e 10 giorni dopo che mio padre Abramo era tornato vivo da un lager nazista. Ho lavorato per 23 anni all’Unità e 8 di questi come corrispondente a Cuba e inviato in America latina. Dal 1990 ho lavorato a Panorama. Dal 2002 e per 10 anni sono stato sindaco di Sesto San Giovanni. Ho scritto alcuni libri di racconti e l’Università Statale di Milano mi ha riconosciuto “Cultore della materia” in Letteratura ispanoamericana)


clicca qui per mettere un like sulla nostra pagina Facebook
clicca qui per rilanciare i nostri racconti su Twitter
clicca qui per consultarci su Linkedin
clicca qui per guardarci su Instagram

e.... clicca qui per iscriverti alla nostra newsletter