Cibi del futuro, dalla fantascienza alle start up

di MANUELA CASSARA'* 

Premetto: l’argomento mi fa una certa impressione. Sarà perché evoca immagini di un mondo oscuro, in un futuro non troppo lontano, dove Terminator senza pietà se ne vanno a caccia di quei pochi umani rimasti, nascosti tra le macerie di una civiltà  che si è autodistrutta, costretti ad alimentarsi di cibo che non può più crescere alla luce del sole. Ma solo in laboratorio.

Il che ci porta diritti a questa storia, che a me ha sorpreso molto.

Iniziamo dall’inizio. Questo pezzo è cominciato per caso, per un casuale post su Facebook, che ha fatto scattare il mio interesse, dapprima superficiale, poi curioso, poi invischiato in una rete sempre più articolata d’informazioni, con strati su strati di dati, date e connessioni.

Quella che, a prima vista, era sembrata la furba promozione social di un’azienda israeliana, la Future Meat Technologies (che d’ora in poi chiamerò FMT) apparentemente unica e antesignana nella commercializzazione di carne prodotta in laboratorio. Carne vera, non similcarne sintetica, che già oggi viene proposta come alternativa politicamente corretta in certi Fast Food, per attirare il crescente numero dei vegetariani, quando non addirittura vegani.

Ma se ci mettiamo ad aspettare che il numero di vegani duri e puri, o di chi ha a cuore di salvare il pianeta, preoccupato dagli effetti devastanti dei cambiamenti climatici, diventi determinante, ci vorrebbe quel tempo che non abbiamo. Perché quello a disposizione - per tutelare l’ecosistema, salvare le foreste, limitare il consumo d’acqua, evitare di allevare e ammazzare gli animali in maniera così intensiva e brutale - per di più con la velocità dell’effetto domino sul clima, effetto che sta sorprendendo persino le Cassandre più menagramo tra gli ambientalisti e i meteorologi, è poco, anzi è zero. E’ un battito di ciglia.

Ma torniamo al Future Meat Israeliano. Se diamo retta alla loro propaganda, sembra che abbiano fatto tutto da soli, che siano gli unici. I primi.

Niente di meno vero


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GLI INIZI e GLI SVILUPPI

Non pensate che coltivare carne in laboratorio sia roba da Science fiction. E’ una storia che ha radici lontane.

I primi esperimenti sulle cellule in vitro sono iniziati nel 1912, quando il premio Nobel Alexis Carrel era riuscito a mantenere in vita, per anni, un frammento di cuore di pollo, in una soluzione non meglio identificata.

Nel 1930, un certo Frederick Edwin Smith nel suo libro “The world in 2030 A.D”  aveva predetto che solo cento anni dopo, e cioè tra appena nove anni nostri, “non sarà più necessario arrivare alla stravagante lungaggine di allevare un bue al fine di mangiare la sua bistecca”. Profetico. Altro che Jules Verne, Isaac Asimov o Arthur C. Clarke.

Nel 1952 un romanzo di fantascienza,  “The Space Merchants”, di Frederik Pohl e Cyril M. Kornbluth, aveva affrontato gli usi e abusi di un consumismo distopico e ipertrofico, immaginando un’alimentazione con della carne  di pollo cresciuta in vitro. “Decine di condutture passavano in mezzo alla massa di ‘carne’ pulsante. Quando una sua parte si gonfia rapidamente e si vede a occhio che è sana e tenera, taglio via il pezzo. I miei aiutanti s’impadroniscono della porzione, la tagliano in pezzi più piccoli, e li sistemano sui nastri convettori'”. Il che suona abbastanza agghiacciante, abbastanza da film horror, ma, come vedremo non lontano dalla realtà odierna.

Gli esperimenti con la coltivazione cellulare in vitro s’intensificano dal 1971 in poi, e proseguono senza grandi progressi per un ventennio. Fino al 3 Marzo del 1995, quando un ricercatore e industriale olandese, Willem van Eelen, deposita un brevetto al Nederlandsch Octrooibureau per la produzione, con valenze industriali, “di cellule di tessuto di carne e pesce con completa rassomiglianza esteriore, aspetti organolettici e caratteristiche” uguali a quelle prodotte da madre natura.  “Ci sarà da aspettarsi una certa riluttanza iniziale” aveva previsto van Eelen, passato ai posteri come Padrino della Carne Coltivata. Ma, aveva proseguito ottimista questo settuagenario visionario, una volta assaggiato il prodotto“diranno WOW. Anche a me piace andare da McDonald’s, ma non mi piace come è fatto quell’hamburger. Quando vedranno che i miei hamburger sono buoni, noteranno anche che costano meno e sono più salubri”.  Non così facile, caro Mr. Van Eelen. Ma ci stanno provando.Hamburger di pollo di Super Meatjpeg

Dopodiché le iniziative si moltiplicano e i tempi si accorciano. Nel 1998 Jon F. Vein, un prolifico imprenditore, tra i tanti brevetti depositati nei suoi diversi campi d’attività e interesse aveva registrato negli Stati Uniti quello per la produzione di tessuto di carne ingegnerizzato per il consumo umano (Brevetto US 6.835.390 B1) in cui le cellule muscolari e adipose di manzo, pollame e pesce venivano fatte crescere in vitro. Una tecnologia, se si vuole, simile alla coltivazione dei tessuti umani utilizzati nella medicina rigenerativa. Quindi, perché no.

Dal 1999 al 2002 la stessa Nasa aveva finanziato una ricerca per verificare la fattibilità di produrre proteine animali in vitro, utili alla salute e al morale degli astronauti, per alimentarli durante i lunghi viaggi spaziali. Tipo i quattro anni verso Marte. I risultati, ottenuti con dei filetti di pesce coltivati con siero fetale di bovino, il che non suona molto appetibile, erano stati incoraggianti, ma dato che, per legge, i prodotti sperimentali non possono essere assaggiati ma solo analizzati, i finanziamenti e con essi le ricerche si erano fermati.

Nel 2000 Jason Methany, attuale National Security Advisor nell’Amministrazione Biden, un vegetariano particolarmente attento alla salute del nostro pianeta, aveva fondato New Harvest, la prima società no profit dedita alla ricerca in vitro.  Nel 2005 lo stesso Methany, a capo di un team dell’Università del Maryland, aveva pubblicato un primo lavoro scientifico e documentativo sulla rivista Tissue Engineering


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Nella primavera del 2007, per volontà di Stig Omholt, direttore del Centro di Genetica Integrativa norvegese, nasce l’In Vitro MeatConsortium, al quale aderiscono 13 ricercatori, tra scienziati europei e statunitensi. E’ di Omholt l’idea di coinvolgere la compagnia petrolifera Statoil (che usa methanococcus per trasformare il gas naturale in proteine) perché “se non avremo accesso a un mezzo di coltura cellulare a buon mercato non andremo da nessuna parte… e questa bioproteina potrebbe essere la fonte di carbonio necessaria al nostro mezzo”. Mezzo di crescita che, fino a quel momento, era ancora il siero fetale bovino. Un siero non solo costoso, 1.000 dollari al litro, ma anche crudele, perché raccolto dai feti di mucche gravide, durante la macellazione.

Nel 2008 l’organizzazione animalista americana Peta – People for Ethical Treatment of Animals– aveva indetto il concorso “ A chicken in everypot” (Un Pollo in ogni pentola) offrendo un milione di dollari a chi fosse riuscito, entro il 2012, a commercializzare “una carne di pollo coltivata in vitro con sapore e consistenza indistinguibile da quella vera”. Ma nemmeno i progressi nel campo e l’estensione di due ulteriori anni avevano dato i risultati sperati e nel 2014 la Peta aveva ritirato bando e premio.

Nel 2009 Mark Post, specialista in ingegneria dei tessuti all’Università della Tecnologia di Eindhoven, aveva redatto un proof of concept (lo tradurrei con un protocollo) e predetto: “Tempo 5-10 anni e potremo realizzare il primo hamburger da laboratorio. Per far sviluppare le cellule - aveva spiegato - occorre elettrostimolarle con un’apparecchiatura simile a un forno a microonde, proprio come si stimolano i muscoli di un corpo”. Previsione avveratasi. Nello stesso anno un gruppo capeggiato da Klaas Hellingwerf dello Swammerdam Institute for Life Sciences dell’Università di Amsterdam si era impegnato a studiare un siero artificiale, non di provenienza animale, come brodo di coltura. La ricerca aveva ricevuto il supporto e l’approvazione di Peter Singer, un filosofo australiano, professore di bioetica a Princeton, considerato il padre fondatore del movimento animalista, autore nel 1975 di Animal Liberation: ”È una grande idea potenzialmente, ma anch’io prevedo problemi di marketing. Intanto mi sto preparando psicologicamente a chiamarla ‘carne”. 


Lo spot della  Future Meat Technologies


Anche se il fatto che le cellule animali siano state raccolte da animali vivi e senza alcun tipo di sofferenza non avrebbe dovuto urtare la sensibilità dei vegetariani. Non avrebbe dovuto.  Non dovrebbe. Ma sappiamo che la psiche non è acqua. Peter Verstrate, direttore di una delle maggiori industrie olandesi di lavorazione delle carni, ben conscio del potenziale commerciale, proprio quell’anno diventa uno dei maggiori sponsor del progetto carne in vitro. “Entro cinque anni potremmo produrre frammenti di carne o di tessuto proteico con un procedimento simile a quello delle stampanti a getto d’inchiostro… In dieci o vent’anni potremmo già ottenere ragù per spaghetti, salse e polpette, ma per avere delle bistecche ci vorranno 30 anni. I consumatori opteranno per salvare l’ambiente, risparmiare soldi e sofferenze agli animali. Sarebbe grandioso avere una foto di Paul McCartney che mangia una nostra salsiccia fatta in laboratorio”.

L’attenzione dei media, intanto, comincia a farsi sentire. Time consacra la Meat Farm come una delle 50 migliori idee industriali del 2009.

Tempo i canonici 5 anni predetti da Mark Post e il 5 Agosto del 2013, a Londra, durante una diretta TV,  avviene il battesimo ufficiale della carne in vitro, padrino ovviamente lo stesso Post. Lo chef Richard McGeown fa saltare in padella un piccolo, prezioso dischetto di carne bovina coltivata, costato la non modica cifra di 330.000 dollari.

Passano gli anni e le startup crowdfunded proliferano, mentre la tecnologia ha fatto passi da gigante. Tutti, tuttavia, sembrano concentrarsi sul pollo. Se avesse avuto più pazienza, la Peta oggi avrebbe avuto solo l’imbarazzo della scelta per elargire il suo premio di $ 1.000.000.

Da FMT che ha fatto da innesco alla nostra inchiesta a Super Meat, un’altra start up israeliana con sede a Tel Aviv, che ha scelto la formula “dal produttore al consumatore”, aprendo The Chicken, un ristorante-laboratorio. Pare che ci vogliano circa tre giorni per fare crescere un filetto di pollo, partendo da cellule prese direttamente dall’uovo, senza aspettare che il pennuto sia nato. Poi c’è Good Meat, che è addirittura un brand. Creato da Eat Just Inc, una società di Los Angeles poi trasferitasi in un garage a San Francisco. Visti i successi di tutte le mega compagnie nate in un garage, da Apple a Microsoft ad Amazon, direi che ormai saranno affittati a peso d’oro. E poi di sicuro portano bene. Eat Just nasce con la mission di applicare la scienza alla produzione di cibo, e le sue prime ricerche erano partite da basi vegetali, con caratteristiche simili alle uova.

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Da cui possiamo affermare che è nato prima l’uovo, poi, come si vedrà, la gallina. Il sito di Good Meat, graficamente elegante e drammatico, racconta la sua storia partendo non dico dal Big Bang ma quasi, con un excursus dalla preistoria alla sofferenza ambientale dei giorni nostri. “Per la prima volta, racconta lo schermo, partendo da una singola cellula possiamo produrre una quantità illimitata di carne, senza disturbare l’habitat di una singola foresta, senza che una vita venga tolta. Possiamo nutrire le nostre famiglie senza uccidere il nostro pianeta”. Gli argomenti di vendita ci sono eccome. Al momento Good Meat è venduta in esclusiva a Singapore da 1880, un locale che è anche un ristorante ricercato e un bar raffinato, un luogo di eventi e d’incontri multisensoriale, determinato a fare parlare di sè.

Nel 2020 è uscito anche un film sulla genesi dell'industria della carne coltivata: MEAT THE FUTURE  (gioco di parole bello e intraducibile, dove meat= carne, meet = incontra). Una storia che, partendo dagli inizi di un’altra piccola start up californiana, la Memphis Meats, ne ha seguito lo sviluppo dal 2016 al 2019, allargando l’esplorazione nei meandri di un settore in accelerazione e in evoluzione. E non solo negli Stati Uniti.

Intanto Future Meat Technologies, come si evince dal mio incipit, si sta dando da fare: il suo processo produttivo si è evoluto fino a consentire cicli di produzione rapidi, circa 20 volte più veloci rispetto agli allevamenti tradizionali, che genererà l'80% in meno di emissioni di gas serra, utilizzerà il 99% in meno di terra e il 96% in meno di acqua dolce rispetto alla tipica produzione di carne. Cifre di tutto rispetto.

FMT, nonostante i progressiha una capacità produttiva giornaliera di 500 kg di filetti di pollo, pari a quanti se ne ricaverebbero da 250 pennuti, che tradotti in hamburger sarebbero circa 5.000. Quisquiglie per una nazione che, nel 2018, ha dichiarato un consumo pro capite di 222 kg tra carni rosse e pollame. Ma è pur sempre un inizio.

E’ evidente quanto cotanto potenziale sfrizzoli l’interesse del Mondo Finanziario.

L'industria della carne coltivata è arrivata a comprendere oltre 75 aziende, negli Stati Uniti, Canada, Israele, Spagna, Giappone, Hong Kong, Russia, India, Australia, Belgio, Argentina… non ho visto l’Italia. Ovvio che il settore abbia attirato finanziamenti record lo scorso anno, passando da 0 dollari nel 2015 ai  $ 366 OM nel 2020. Nel2021, e siamo solo a metà anno, ha già raggiunto i $265 OM. 



GLI INVESTIMENTI ad oggi jpg

Sin dai primi prototipi, le startup hanno ridotto i costi del 99% e se i consumatori si dimostrassero entusiasti, secondo la Global Management Consulting McKinsey& Co il mercato potrebbe raggiungere i 25 miliardi di dollari entro il 2030.

Ma i costi devono essere ulteriormente ridotti.

Future Meat Technologies, che ha raccolto 43 milioni di dollari da investitori tra cui Tyson FoodsInc., Archer-Daniels-Midland Co. e S2G Ventures LLC, rivendica di aver ottenuto  il prezzo più basso per il suo petto di pollo coltivato.

Se nel 2013 quell’hamburger in televisione era costato $ 330.000, FMT è riuscita a ridurre il costo a meno di 4 dollari per 100 grammi. E prevede di dimezzarlo entro la fine del 2022. Sempre troppo caro, se pensate che un McChicken costa un dollaro.Ciò nonostante FMT è in procinto di fare approvare impianti di produzione dai regolatori statunitensi per iniziare a offrire i suoi prodotti nei ristoranti entro la fine del prossimo anno. E il Kentucky Fried Chicken niente di meno, pare sia interessato.

Intanto il Good Food Institute, per le cose nella giusta prospettiva, ha affermato che la produzione di carne coltivata dovrà raggiungere milioni di tonnellate all'anno per passare dalla fase dimostrativa a quella industriale.

Le premesse ci sono. Le promesse pure.


*MANUELA CASSARA’  (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità  anche sul resto)


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