Chiusi nel rifugio sotto le bombe naziste. Ma è un museo

di FABIO ZANCHI *

Rombo di aerei. Una bomba. Poi un’altra e un’altra ancora. La luce si spegne. Un bimbo comincia a piangere. Poi un altro e un altro ancora. Nel buio una voce intona una nursery rhyme. La canzoncina sembra quietare i neonati, mentre il bombardamento si fa sempre più intenso e la panca trema sotto il sedere.

Quella che fino a un momento prima era un’allegra e spensierata frotta di turisti proveniente da varie parti del mondo si zittisce. Il silenzio è pesante, sotto rumori, sussulti, singhiozzi che rievocano il bombardamento di Londra del settembre 1940. E l’angoscia è angoscia vera, quando si aprono le porte del rifugio. All’interno, torna la luce, le lampadine ballano. Fuori, il panorama è cambiato. Macerie ovunque. In primo piano, mezza schiacciata da una cascata di mattoni fumanti, una carrozzina per neonati. Ribaltata. Una delle ruote gira ancora. La strada non è più la stessa che si era vista entrando nella cantina trasformata in rifugio antiaereo. È sparita la quinta di case che impedivano di vedere oltre. Adesso che il bombardamento è finito, sullo sfondo, si vede la cattedrale di Saint Paul in una Londra in fiamme. Si esce dal rifugio in silenzio. Guardinghi. E per un po’ non torna, la voglia di parlare.

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Era il 1997. In famiglia avevamo deciso di fare la nostra breve vacanza all’estero. Un anno a Parigi, uno a Madrid. Quell’anno avevamo deciso di visitare Londra, con i figli: Matilde, che aveva terminato le medie, e Giovanni, quinta elementare. Guardando la piantina per individuare le tappe canoniche e fondamentali, quelle da non perdere (“Ma come, sei stato a Londra e non hai visto questo e quell’altro?”), mi aveva incuriosito una sigla: IWM. Mi informo. Quella sigla corrispondeva, e corrisponde, a Imperial War Museum. Nientemeno. Gratuito, per giunta, in una città cara come il fuoco. La sede che andremo a visitare, una delle tre londinesi in cui è articolato, non è neppure troppo lontana, visto che si trova a un chilometro circa dal Big Ben, oltre il Tamigi, in Lambert Road.

Il museo è ospitato da un’ex chiesa che durante la guerra fu trasformata in ospedale, il Bethlem Royal Hospital. Davanti all’entrata, due cannoni di notevoli dimensioni rendono l’idea di quel che si vedrà. Dentro, infatti, c’è proprio tutto quel che ci si può aspettare da un museo della guerra: armi, uniformi, gavette, attrezzi infermieristici più o meno rudimentali. Fotografie d’ogni genere provenienti dai fronti più disparati. Aerei, missili, le famigerate V2, bombe d’ogni genere.

Quel che non ci si aspettava erano le “esperienze”. La prima, molto suggestiva, era la ricostruzione della vita in trincea durante la Prima guerra mondiale. E si trattava di una ricostruzione perfetta. I camminamenti, i reticolati, i dormitori puzzolenti, le stufe ricavate da bidoni di latta, le infermerie con i letti coperti di paglia. Fango, fango ovunque, topi grossi come castori, e puzza di umidità, muffa, polvere da sparo ed esplosivo. Tutto molto realistico, compresa la colonna sonora, fatta di urla ed esplosioni, che ci accompagnava nel percorso. Strabiliante per chi, venendo dall’Italia dove ancora non c’erano ricostruzioni di quel tipo, si trovava per la prima volta di fronte a qualcosa di così concretamente repellente da far dimenticare di essere in un ambiente posticcio. Soltanto i manichini con l’uniforme parevano stonati, tanto era realistico tutto il resto.

Usciti da quella sezione, si entrava in contatto con quella del bombardamento, vissuto nel rifugio. Esperienza ancora più scioccante, perché le bombe che sentivi ti cadevano proprio sulla testa, mentre eri nel buio assoluto di quello stanzino.

Il resto del museo, molto più tradizionale, l’abbiamo vissuto più alla leggera, immersi com’eravamo in quell’emozione inedita e fortissima. Così ci sono passate davanti agli occhi le immagini di tutte le guerre collegate con la dimensione imperiale del Commonwealth, del conflitto nel Vietnam, della Shoah.

All’uscita, un’ultima sorpresa: uno schermo che, in tempo reale, a una velocità impressionante, registrava il numero di vittime dovute ai conflitti aperti nel mondo. Un colpo allo stomaco. Da rimanere senza fiato. Ho lasciato quel museo con la convinzione che, chiunque ne fosse entrato con qualche inclinazione bellicosa, ne sarebbe uscito pacifista. Senza troppi dubbi.

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(foto di Fabio Zanchi)

La conferma l’ho avuta qualche giorno più tardi, quando siamo andati in visita al museo delle cere di Madame Tussauds (sempre per evitare che qualcuno ci rimproverasse: “Ma come, siete stati a Londra e non avete portato i ragazzi al museo di Madame Tussauds?”). Anche in questo caso, esperienza indimenticabile. Fila lunghissima e ordinatissima, come quella che anni e anni dopo avrei visto e vissuto soltanto a Expo 2015, qui a Milano. Girando per le sale, arriviamo davanti alla statua di cera di Nelson Mandela. Mio figlio mi chiede una foto accanto a quella statua. Soltanto una volta arrivati a Milano, stampate le foto della vacanza (allora si usava così, oggi sembra preistoria) mi sono accorto di un particolare: mentre scattavo, Giovanni ha stretto la mano di Madiba. Che dire? Spesso, il gesto di un ragazzino vale molto più di qualsiasi parola.

PS.: In queste settimane l’Imperial War Museum è chiuso. Il motivo è che stanno ampliando la sezione dedicata alla Shoah. Una ragione in più per andarlo a visitare, una volta che lo avranno riaperto.

*FABIO ZANCHI (Da piccolo guidava trattori e mietitrebbie. Da giornalista, prima all’Unità e poi a Repubblica, ha guidato qualche redazione. Per non annoiarsi si è anche inventato, con Nando dalla Chiesa e altri spericolati, il Controfestival di Sanremo, a Mantova)

 

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