Camere con vista - 3) Isole a Nord

di FEDERICA IACOBELLI*

Esistono moltissimi luoghi che non ho mai raggiunto e, considerata la natura del tempo e le sorti del mondo, c’è il caso che non possa farlo mai neanche in futuro. Ma esistono poi molti altri luoghi, spesso gli stessi, in cui sono stata portata da pagine, scene o sequenze. Andandovi così, per strade e con mezzi poco ortodossi, mi è capitato di compiere un doppio viaggio: uno fisico e l’altro psichico; uno nel posto rappresentato a partire da geografie reali e l’altro nella mente di chi l’aveva scelto e ricreato. Viaggi vissuti restando ferma nelle camere con vista che certe opere a volte diventano.

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Se anche avessi passeggiato sul mar Baltico, se pure lo avessi navigato dalla capitale scandinava verso oriente, comunque non avrei conosciuto tutte le terre nell’acqua sulla mia rotta, non avrei catturato la luce cangiante dello Stockholms skärgård: un arcipelago di ventiquattromila tra scogli, isolotti e isole che una volta erano deserte, se non per un manipolo di pescatori, ma oggi ospitano migliaia di case destinate in prevalenza alla villeggiatura stoccolmese. È per via dello spazio e del tempo e del modo in cui l’uno e l’altro s’intrecciano tra il dentro e il fuori di noi, tra le misure che un corpo riesce a toccare, le immagini fotografate dai nostri occhi e quelle che una memoria umana può trattenere. Ma per fortuna rimangono quei rulli e bobine di quasi settant’anni fa: di quando su una pellicola in bianco e nero lo spazio marino che dalle coste della grande città costruita sopra isole e ponti procede lungo quelle delle province di Södermanland e Uppland sembrò scolpire da un’unica estate ogni suo istante spazio-temporale.

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(Photo: Louis Huch © AB Svensk Filmindustri)


Un’estate con Monica (Sommaren med Monika, 1953) è il nome di quel film del regista e drammaturgo svedese Ernst Ingmar Bergman arrivato in Italia quasi dieci anni più tardi con il titolo Monica e il desiderio. Quando dopo settimane di riprese ci si accorse che i nastri erano persi, nella troupe non serpeggiò alcuno sconforto: restare ancora nel mezzo dello skärgård tra le pietre dell’isola di Sadelöga, come su una parte per il tutto, era in fondo più di quanto si sperasse. Nel lungometraggio uscito subito prima, Donne in attesa (Kvinnors väntan, 1952), lo stesso autore aveva immaginato e filmato un finale con due adolescenti che fuggivano in barca da una terra dell’arcipelago dove i loro adulti restavano in villa. Poi gli era capitato di incontrare lo scrittore Per Anders Fogelström e di sentirlo ossessionato da una storia che in scrittura non aveva trovato la sua forma compiuta: la storia “di una ragazza e un ragazzo che lasciano i rispettivi lavori e famiglie, terribilmente giovani, e scappano nell’arcipelago e poi tornano e cercano di stabilirsi in una specie di borghesia; ma allora sarà l’inferno per loro”. Così, prima di farsi romanzo, quei personaggi e quella trama diventarono immagini in movimento. E i giovanissimi Monica e Harry nacquero al mondo dalle figure vive degli attori scelti per il ruolo e dal presente di un set che in quell’opera si espande, immobile e insieme infinito, facendo di qualche roccia in mezzo al mare l’epoca e il posto di un’intera vita.

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(Photo: Louis Huch © AB Svensk Filmindustri)


Succede qualcosa nel tempo del film, letteralmente: dopo le prime scene che presentano la diciassettenne e il diciannovenne nella loro comune città e durante i loro primi incontri, ciascuno compresso dentro un’esistenza quotidiana deprivata per orfanità o per miseria e umiliata da un impiego precoce da classe operaia, dopo che i due sono fuggiti sulla barca del padre di lui, dove lei si è rifugiata dalle violenze di un genitore sempre ubriaco e di un appartamento pieno di fratelli bambini e povero di qualunque intimità, Monica e Harry escono da una cronologia in successione, un giorno dopo l’altro e le ore e i minuti contati da lancette e impegni e ritardi e coprifuochi, per entrare in una dimensione in cui orologi non ce ne sono, capi e seccatori e aguzzini sono tutti scomparsi, e le mattine e le notti e i pomeriggi sono un unico flusso chiaro, aperto, scintillante negli anfratti o sugli scogli sopra i quali solo il vento e l’amore investono i corpi nudi e vicini dei due ragazzi e allargano il corpo dell’isola lasciandoci afferrare ogni terra sull’acqua tutt’intorno, ogni luce passata o futura sull’arcipelago, anche mentre secolo dopo secolo se ne modifica la geografia. Un tempo senza tempo libero da ogni oppressione finché quell’estate d’amore non finisce, e Monika si scopre incinta, e il rientro in città e il matrimonio frettoloso con Harry, il più mite tra i due, segnano anche il ritorno alle età umane scandite e a un mondo senza né luce né respiro.

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(Photo: Louis Huch © AB Svensk Filmindustri)


Ma è di nuovo una luce unica, indimenticabile, quella che ci rimbalza addosso dai fotogrammi dei filmini di famiglia girati da una Bergman donna, la meravigliosa Ingrid, nell’isola di Dannholmen al largo di Fjallbacka. È un’aria vivida, materica e insieme rarefatta, che ci conduce dentro un respiro di bellezza e tenerezza universali per quanto evidentemente appartenga al passato, agli anni sessanta del secolo scorso. Non appartiene al passato la sua stella, però, perché brilla anche ora. E infatti pezzi di quel girato dall’arcipelago lo vediamo montato in un film documentario uscito in occasione dei cento anni dalla nascita dell’attrice svedese, Jag är Ingrid (Io sono Ingrid, 2015), diretto dallo scrittore e critico Stig Björkman e scritto dal regista insieme a Stina Gardell e alla montatrice Dominika Daubenbüchel. 

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Quando le immagini ci portano col vento sul mar Baltico, stiamo già entrando nella terza e ultima parte di un lungometraggio che ci ha fatto rivivere la vita di Ingrid Bergman dalla sua infanzia fino alla morte attraverso un racconto appassionato ed emozionante, creato montando materiali audiovisivi di diversi formati ed epoche e provenienze, sia pubblici che privati, e costruendovi con un montaggio di diari e lettere e interviste una narrazione parallela in voice over immaginata come condotta dalla stessa protagonista. Nell’arcipelago arriviamo con lei nei mesi e anni successivi alla separazione da Roberto Rossellini: dopo un grande dolore che l’incontro con Lars, il futuro terzo marito, contribuirà a placare. “Lars è un uomo meraviglioso”, dice la voce che immaginiamo sia di Ingrid mentre lo racconta a un’amica. Lars possedeva un isolotto nello Stockholms skärgård, ci rivela qualcun altro. Ed eccola l’isola, impressa su pellicola attraverso la piccola cinepresa che l’attrice svedese portava sempre con sé da quando era giovanissima. Nelle immagini, insieme a lei, ci sono i figli di Rossellini ancora piccoli. C’è il vento. C’è Lars, l’innamorato, l’impresario teatrale. Ci sono le grandi vetrate delle tante finestre di una casa rossa costruita su uno scoglio nel mare. C’è la musica di Nyman, la cui prima ispirazione sembrano essere stati proprio i colori e i movimenti di questi film di famiglia nell’arcipelago. “Dannholmen, così isolata…”, continua la voce che immaginiamo di Ingrid: “in estate è tutto talmente limpido che risplende: il mare, le rocce, il cielo… quando sono venuta per la prima volta, di fronte alla casa ho detto, amo la tua isola, e Lars ha risposto, bene, allora sposiamoci”. 

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L’isola di Lars ritorna nelle immagini finali del documentario, che curiosamente seguono al racconto dell’incontro tardivo tra Ingrid e Ingmar, i due Bergman, per il film Sonata d’autunno (Höstsonaten, 1978, conosciuto in Italia nella traduzione imprecisa di Sinfonia d’autunno). Torna nel rosso luminoso di una notte estiva del nord, nei balli buffi dei bambini sul tetto della casa rossa, nei loro giochi con lenzuola come vele, con giubbotti gonfiati dall’aria, capelli sparsi nel vento, e infine in una Ingrid seduta sul molo di legno a salutare i suoi figli mentre si allontanano in barca e a fingere di piangere e poi ridere e poi piangere di nuovo, per scherzo, dea e clown nello stesso momento: una sequenza di fotogrammi che la sua figura e la sua aura prendono tutta intera e che però sembra mutarsi sul finire in un’altra immagine, quella dello spazio-tempo di tutte le isole, in quel mare, come riflesse sul suo viso stupendo. Un viso certo diverso da quello di Harriet Andersson, l’interprete di Monica, ma che pure per qualcosa me lo ricorda. Ci penso e mi dico che è il naso: nasi non grandi, al contrario, ma di carattere, molto armoniosi eppure sporgenti dal profilo, a modo loro; nasi come isole nel mare chiuso e insieme aperto di volti che il tempo scolpito dà l’illusione di poter afferrare e fermare; come per avidità si cerca di afferrare insieme ogni cosa o come, per paura, si cerca di dimenticare la morte.


*FEDERICA IACOBELLI (Laureata in lettere classiche e specializzata in giornalismo e in sceneggiatura, lavora scrivendo e insegnando all’ISIA U. Le sue opere, specie quelle per i lettori più giovani, nascono spesso dall’incontro con la memoria di vite vere e il linguaggio di arti diverse. Tra le sue pubblicazioni i romanzi 'La città è una nave' (collana ‘gli anni in tasca’, Topipittori 2011) e 'Storia di Carla' (collana ‘i chiodi’, Pendragon 2015); i racconti 'Uno studio tutto per sé' (MottaJunior 2007, Premio Pippi 2008) e 'Lev della radura' (rueBallu 2020, illustrato da Pia Valentinis); gli albi 'Mister P' (con Chiara Carrer, Topipittori 2009) e 'Giulietta e Federico' (con Puck Koper, Camelozampa 2020). Per Edizioni Primavera dirige la collana ‘i gabbiani’, letteratura teatrale per giovani lettori).


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