Camere con vista - 2) Due case
di FEDERICA IACOBELLI*
Esistono moltissimi luoghi che non ho mai raggiunto e, considerata la natura del tempo e le sorti del mondo, c’è il caso che non possa farlo mai neanche in futuro. Ma esistono poi molti altri luoghi, spesso gli stessi, in cui sono stata portata da pagine, scene o sequenze. Andandovi così, per strade e con mezzi poco ortodossi, mi è capitato di compiere un doppio viaggio: uno fisico e l’altro psichico; uno nel posto rappresentato a partire da geografie reali e l’altro nella mente di chi l’aveva scelto e ricreato. Viaggi vissuti restando ferma nelle camere con vista che certe opere a volte diventano.
*************Le case degli altri sono i paesi che non conosciamo mai neanche nel nostro paese, persino nel caso in cui ci fermiamo a sbirciarle dalla strada attraverso le finestre illuminate fantasticando sui loro spazi e su chi li abita: nelle case degli altri non entriamo, infatti, e in quelle poche in cui saremo entrati resteremo sempre troppo poco, sempre comunque estranei.
Con questo pensiero sono tornata da Marco e da Mark, curiosamente omonimi pur se in due lingue diverse e pressoché coetanei stando agli anni in cui le loro scrittrici li hanno immaginati e raccontati. Li ho cercati e seguiti entrambi verso la casa fuori città che all’inizio di ciascuna storia visitano per la prima volta e dove restano per quasi tutto il tempo del racconto senza conoscerne davvero la vita, quella presente e quella assente, ma sentendola pervasiva come lo spirito di un luogo sa essere.
Certo Mark Lamming se l’aspettava diversa, Dean Close, dove fino a ventitré anni prima alloggiava il suo Gilbert Strong. Giungendovi da Londra in vista della sua ricerca, ‘per poco non passò oltre: oltre la grande insegna verde che recitava vivaio di Dean Close, aperto tutti i giorni incluse le festività infrasettimanali; oltre il cartello parcheggio che indicava il cortile della scuderia; oltre la facciata della casa - familiare dalle fotografie - con la sua struttura a graticcio, i frontoni e i pilastri rustici, una sorta di cottage orné di grandezza superiore; oltre la montagna di sacchetti di plastica gialla intravista nel vialetto. Fu quella, forse, a dargli l’impressione che non poteva essere arrivato alla meta; un cartello lì accanto recitava torba - 2.50 sterline.’. Tra cascate di glicine e una stalla trasformata in ufficio vendite, adesso Dean Close è almeno in parte la disordinata dimora e l’affastellata serra di Carrie Summers, figlia unica dell’unica figlia di Strong, trentaduenne con salopette da lavoro, sembianze adolescenti e quasi nessun libro letto compresi quelli, tanti, scritti dal nonno: saggi di letteratura, romanzi, biografie che invece Mark conosce a memoria dovendo accingersi a comporre la prima, corposa ‘Vita’ del critico e scrittore. Per questo è venuto qui, e ci starà per qualche tempo. Accompagnato da Carrie, attraversato il caos delle stanze ancora vissute e varcata una porta di panno verde, Lamming si ritrova catapultato dagli anni ottanta agli anni trenta del Novecento, in mezzo a parquet scricchiolanti, tappeti a losanghe, sofà, tavolini malfermi e librerie con ante di vetro in un ambiente che tutto sommato ‘doveva essere stato chic, all’epoca’: una casa nella casa piena di cose e vuota di persone, ‘che odorava di umido e di libri pubblicati prima del 1930’, con uno studio ‘rimasto fermo con pervicacia intorno al 1918’.
Nel romanzo che inizia più o meno così, According to Mark della scrittrice inglese Penelope Lively da noi tradotto con uno stonato Amori imprevisti di un rispettabile biografo (prima edizione inglese 1984, prima edizione italiana 2011 nella traduzione di Corrado Piazzetta), il protagonista pranza, cena, dorme a Dean Close e intanto cerca documenti inediti o nascosti, apre cassetti e bauli, legge e rilegge manoscritti, lettere e diari del defunto Strong: di quest’uomo che aveva vissuto in un’epoca inquieta ma era stato esonerato da entrambe le guerre mondiali e in fondo con nessuna sua azione e nessun libro aveva mai ‘influenzato il corso della storia’. Dal momento in cui Mark è dentro la casa, però, la vita di Strong influenza la sua, proprio mentre, in quel ‘misto di coinvolgimento e scetticismo’ necessari al suo lavoro, il biografo viene invaso da una ‘crescente ondata di sospetto’ a causa del ‘tono e della portata delle omissioni’ di cui si accorge scartabellando i faldoni e della sensazione che tutto sia stato lasciato lì da Strong con la consapevolezza che sarebbe diventato pubblico, comunicando ‘con precisione quello che gli stava bene e sbarazzandosi di qualunque dettaglio fosse in disaccordo con la sua variante prediletta’. Ed è poi in un’altra casa, una ‘casa di altri’ pure per l’oggetto del suo studio, che Mark scova i segreti di cui aveva sentore. Li trova quasi senza cercarli, quando forse sa già che non li userà nella sua ‘Vita di Strong’, o almeno non tutti interi; che sceglierà e ometterà anche lui, insomma, per servire la trama di un’altrui esistenza quasi che si trattasse di un romanzo.
Perché le cose succedono sempre quando non le vogliamo più, come dice una donna di nome Ilaria nella sua ultima battuta a quell’altro Marco che nella pièce L’intervista della scrittrice italiana Natalia Ginzburg (prima edizione 1989) si presenta tre volte, una per ogni ‘atto’, alla porta di colui al quale dovrebbe porre qualche domanda per una rivista. ‘Questa commedia si svolge in una casa nella campagna toscana’, recita la didascalia iniziale, una delle pochissime presenti nel testo: ‘Inizia nell’anno ’78 e termina ai giorni nostri.’. Come Mark Lamming, anche Marco Rozzi cerca nell’esercizio del suo mestiere un uomo che ha imparato ad ammirare attraverso le sue idee e le sue opere. E lo cerca entrando nella sua casa, che non ha descrizione se non tra le righe dei dialoghi. Marco ha chiamato Gianni Tiraboschi a telefono, ha preso appuntamento, ma quando arriva la prima volta Tiraboschi non c’è: è partito per lavoro, la sua fama è diffusa e lo chiamano ovunque e spesso. E la seconda volta, l’anno seguente, quando Marco si ripresenta nella casa toscana come da accordi per riuscire finalmente nell’intervista, Gianni di nuovo non c’è, chiamato fuori da urgenze personali.
Intorno a Marco resta la casa. Restano le persone care a Tiraboschi che la abitano, la giovane sorella Stella, la convivente Ilaria e le parole di quest’ultima sul suo compagno: sul fatto che è sempre via, sull’ex moglie che lei chiama la Grande Stronza o su quell’altra, la Piccola Stronza, di cui nel secondo atto lui si è innamorato. Così la vita di un uomo fuori scena, di cui sappiamo solo che per quanto schivo e balbuziente è un grande intellettuale e studioso e un eccellente oratore, influenza la vita del giornalista in scena per il tramite dei documenti vivi in cui lo costringe a incappare. Solo il giorno in cui però ci torna una terza volta, dieci anni dopo la prima, e non più a causa del lavoro ma della voglia di fare una deviazione ‘per vedere se eravate sempre qui’, solo allora Marco trova in casa Tiraboschi. Gianni stavolta c’è, perché ormai non si muove: è malato di depressione da anni, da quando la Piccola Stronza l’ha lasciato, e non studia, non fa conferenze, non scrive libri, non dialoga con la gente, non fugge da Ilaria, non litiga con la Grande Stronza. Però la doppia visita di tanto tempo prima e i due incontri mancati se li ricorda. E proprio ora, che non vede più nessuno, a sorpresa vuole incontrare Marco Rozzi. Allora adesso l’intervista deve fargliela, insiste Ilaria nell’ultima, struggente battuta, anche se non ha il registratore, anche se non ha preparato domande, anche se non fa più il giornalista ma lo sceneggiatore. Tanto è così, le cose succedono sempre quando non le vogliamo più. E qui succede che le mura di una casa di altri si aprano, si sbriciolino, la lascino spalancata, trasfigurata in una delle tante stanze di quell’Italia turbolenta che in Gianni Tiraboschi, according to Ilaria and Marco, ha avuto ‘uno dei suoi meglio uomini’.
(Torre di Chia)
Natalia Ginzburg dedicava L’intervista alla memoria dell’amico giornalista e regista Luca Coppola, assassinato nel luglio 1988 appena trentunenne in uno scenario simile ‘all’assassinio di Pasolini’: il caro Pier Paolo che in un’altra casa fuori città, la Torre di Chia, poche settimane prima di morire aveva chiesto al giovane Dino Pedriali di ritrarlo come spiandolo da fuori, sbirciando attraverso le aperture di un ‘paese’ tra i boschi che, pur se reso presto pubblico in quell’incursione fotografica (prima edizione 1975, prima edizione integrale 2011), sarebbe stato comunque e sempre una terra ignota.
*FEDERICA IACOBELLI (Laureata in lettere classiche e specializzata in giornalismo e in sceneggiatura, lavora scrivendo e insegnando all’ISIA U. Le sue opere, specie quelle per i lettori più giovani, nascono spesso dall’incontro con la memoria di vite vere e il linguaggio di arti diverse. Tra le sue pubblicazioni i romanzi 'La città è una nave' (collana ‘gli anni in tasca’, Topipittori 2011) e 'Storia di Carla' (collana ‘i chiodi’, Pendragon 2015); i racconti 'Uno studio tutto per sé' (MottaJunior 2007, Premio Pippi 2008) e 'Lev della radura' (rueBallu 2020, illustrato da Pia Valentinis); gli albi 'Mister P' (con Chiara Carrer, Topipittori 2009) e 'Giulietta e Federico' (con Puck Koper, Camelozampa 2020). Per Edizioni Primavera dirige la collana ‘i gabbiani’, letteratura teatrale per giovani lettori).
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