Camere con vista - 1) Moli e fiordi

di FEDERICA IACOBELLI* 

 Esistono moltissimi luoghi che non ho mai raggiunto e, considerata la natura del tempo e le sorti del mondo, c’è il caso che non possa farlo mai neanche in futuro. Ma esistono poi molti altri luoghi, spesso gli stessi, in cui sono stata portata da pagine, scene o sequenze. Andandovi così, per strade e con mezzi poco ortodossi, mi è capitato di compiere un doppio viaggio: uno fisico e l’altro psichico; uno nel posto rappresentato a partire da geografie reali e l’altro nella mente di chi l’aveva scelto e ricreato. Viaggi vissuti restando ferma nelle camere con vista che certe opere a volte diventano.

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A Lyme Regis, contea di Dorset, sulla costa inglese sudoccidentale, c’è un alto muro di pietra che si piega nel mare per proteggere il porto dai flutti. Lo chiamano Il Cobb e, in accordo con quell’articolo che lo determina come un nome proprio, il vecchio bastione sembra un essere vivo mentre divide il paesaggio tra l’acqua e la terra, tra le case del paese e lo spalancarsi dell’oceano. La prima volta che la sua immagine mi si è impressa sul cuore non è stato dentro un’opera di Jane Austen, da cui pure vi ero stata condotta, ma nell’incipit del più conosciuto tra i romanzi di un altro inglese nato un secolo e mezzo dopo.

Si apriva sul finire del marzo milleottocentosessantasette durante la mattina burrascosa in cui una giovane coppia, lei vestita all’ultima moda e lui in un grigio chiaro impeccabile, aveva preso a percorrere il molo ricurvo, ancora ignara della figura scura che sulla sua punta estrema ‘continuava a guardare il mare, più come un vivente monumento agli annegati, come il personaggio di un mito, che come un appropriato frammento di una qualunque giornata in provincia’. 

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(The Cobb     foto da Pixabay)

Nelle sue Notes on an Unfinished Novel, John Fowles scriveva che la creazione di The French Lieutentant’s Woman (La donna del tenente francese, prima edizione originale 1969, prima edizione italiana 1970) era cominciata con ‘l’immagine di una donna che si trova in fondo a una banchina deserta e guarda il mare.’.  Prima del soggetto, dell’ambientazione, dei personaggi, c’era stata quella semplice visione: una figura umana, femminile, diritta contro il mare aperto, che però nel romanzo non svela subito né la sua identità né il suo sesso. Il primo capitolo è del Cobb, del suo protagonismo silenzioso e della familiarità incoraggiata per secoli negli abitanti di Lyme Regis: un muro nel mare osservato da lontano, attraverso il telescopio di un narratore che è distante non tanto nello spazio quanto piuttosto nel tempo, giacché scrive dell’epoca vittoriana dalla fine degli anni sessanta del novecento.

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Nel secondo capitolo torniamo accanto ai due che camminano sul molo e solo alcune pagine dopo, in un andirivieni tra le digressioni d’autore e il presente della storia, scorgiamo con la coppia la figura scura là in fondo notando finalmente che c’è, e che si tratta di una donna. In paese la conoscono. Guarda il mare senza posa perché aspetta un uomo che l’avrebbe abbandonata, un tenente francese, e per questo a molti appare matta. Però stare sul limitare del Cobb è pericoloso, se il vento è di tempesta. Così l’uomo della coppia corre incontro alla donna per metterla in guardia e avvicinandosi nota che ha tolto la cuffia e tiene i capelli nel bavero di un curioso mantello-cappotto. Solo quando finalmente lei si volta a guardarlo, vediamo con lui ‘un viso indimenticabile, un viso tragico. Sgorgava dolore con la stessa purezza, naturalezza e inarrestabilità con cui sgorga l’acqua da una sorgente nei boschi. Non c’era artificio in esso, né ipocrisia, né isterismo, né maschera; soprattutto non c’era la minima traccia di pazzia. La pazzia era nel mare vuoto, nel vuoto orizzonte, nell’irragionevolezza di quel dolore; come se la sorgente fosse stata naturale in sé ma innaturale in quanto sgorgava da un deserto.’.

Da lì, dal mare, dovrebbe tornare il suo tenente. Eppure lei sa già che non tornerà. Allora come mai guarda ancora verso l’orizzonte? Perché vorrebbe partire lei stessa e andare altrove? Vivere una vita diversa, più consona alla sua intelligenza e istruzione e finora impedita dalla condizione di donna, per giunta di umili origini? Ma il mistero del suo stato d’animo, dei suoi desideri profondi, delle sue mappe sentimentali e mentali, nel romanzo non viene svelato davvero. E l’immagine di Sarah Woodruff resta per noi sempre quella dell’inizio, con il mantello che si leva e si avvolge intorno al suo volto tragico. Rimane immobile, impressa come la pietra di quel muro che resiste al vento e alle onde e difende chi è dall’altra parte dal venirne colpito o consunto.

Meno permanentemente misteriosa si presenta invece un’altra donna, Ellida Wangel, intenta a dialogare con il mare in una piccola città di bagni della Norvegia nel mezzo di un’estate verso l’ultimo decennio dell’ottocento. Non lo fa da un molo sull’oceano ma dalla riva di un fiordo, le montagne scoscese alle spalle e questo braccio d’acqua che s’insinua nella costa inondando in modo quasi opprimente un’antica valle glaciale. E non lo fa guardando il mare, ma toccandolo, dato che qui l’orizzonte le è occluso. Come di Sarah, anche di Ellida sentiamo parlare prima di incontrarla. La signora è uscita, però non tarderà a rientrare, annuncia suo marito, il dottor Wangel, a un ospite appena arrivato: d’estate fa il bagno tutti i giorni, con qualunque tempo, perché pare che trovi rimedio alla sua inquietudine solo quando si tuffa. Ha abitato a lungo nei pressi di un faro, dove lavorava suo padre, e da allora la chiamano ‘la donna del mare’, che è anche il titolo dell’opera teatrale in cui la incontriamo: Fruen fra havet (La donna del mare, prima edizione originale 1888, prima edizione italiana 1894), scritta dal norvegese Henrik Ibsen.

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Prima di vederla entrare in scena, sentiamo la sua voce fuori campo e quindi una didascalia la fa comparire sotto un pergolato ‘chiusa in un grande accappatoio, coi capelli sciolti sulle spalle’. L’acqua di quel mare in cui è stata immersa la definisce ‘tiepida, moscia, flaccida…’: un’acqua ammalata, e che fa ammalare. Notte e giorno, estate e inverno, Ellida soffre la vertiginosa nostalgia del vero mare, quello aperto, sulla cui riva vorrebbe tornare anche per rispondere alla promessa fatta a un marinaio straniero incontrato anni prima su un veliero. Con lui parlava anche del mare, e quasi sempre: ‘Delle bonacce e delle tempeste. Delle notti buie sull’oceano. (…) delle onde che brillano, tremolando al sole. Ma soprattutto si parlava delle balene e delle foche; e delle renne che si scaldano al tepore dei meriggi, sulle coste del Nord. (…) delle aquile e dei gabbiani, e di quegli altri uccelli che hai veduto anche tu...’. 'Sei una figlia del mare’, le ripete il marito. ‘Ne porto in me gli spaventi’. ‘E li propaghi’, aggiunge lui.

Anche lei spaventa e incanta ad un tempo: il marito lo sa. E la capisce al punto da incontrare con lei l’uomo che la ossessiona e che in quell’estate, improvviso, dal mare ritorna. Il dottor Wangel ha intuito che ‘la gente di laggiù, delle coste oceaniche, forma in certo modo una razza a parte. È come se la vita di quegli esseri comunicasse con quella del mare. I loro pensieri e le loro sensazioni, in perpetuo ondeggiamento, risentono della marea. E non si lasciano trapiantare’.

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Sarah Woodruff invece non si lascia trapiantare neanche nella nostra immaginazione. Rimane lì, sul Cobb, sospesa tra terra e acqua, e anche se la trama del romanzo è più che avvincente, anche se il narratore è presente e ci porta dentro alle azioni e ai pensieri dei suoi personaggi, lei è ferma lì, come fatta di pietra e sale. La vitalità dei personaggi diventa vitalità dei luoghi, in qualche modo. Ed ecco che il vero Cobb, la sua sostanza reale, s’imprime sulla pellicola di una storia la cui finzione si duplica e triplica: nel lungometraggio tratto dal romanzo (La donna del tenente francese, 1981), il narratore del libro, onnisciente ironico e dubbioso, lascia il passo a un’intera vicenda parallela, quella dei due attori protagonisti sul set cinematografico dove si sta girando, appunto, la vicenda ambientata in epoca vittoriana. Lo sceneggiatore Harold Pinter non fu originale del tutto, ma fu di certo molto acuto nel trovare un tale espediente drammaturgico. Con lui e con il regista Karel Reisz, del resto, John Fowles era stato chiaro: ‘Tu e Harold fate quello che volete, ma non spiegate Sarah’. Perché anche lui, pur cercando la donna fin dall’immagine ‘matrice’ sul vecchio molo, pur seguendola per centinaia di pagine, non era mai riuscito a comprenderla.




*FEDERICA IACOBELLI (Laureata in lettere classiche e specializzata in giornalismo e in sceneggiatura, lavora scrivendo e insegnando all’ISIA U. Le sue opere, specie quelle per i lettori più giovani, nascono spesso dall’incontro con la memoria di vite vere e il linguaggio di arti diverse. Tra le sue pubblicazioni i romanzi 'La città è una nave' (collana ‘gli anni in tasca’, Topipittori 2011) e 'Storia di Carla' (collana ‘i chiodi’, Pendragon 2015); i racconti  'Uno studio tutto per sé' (MottaJunior 2007, Premio Pippi 2008) e 'Lev della radura' (rueBallu 2020, illustrato da Pia Valentinis); gli albi 'Mister P' (con Chiara Carrer, Topipittori 2009) e 'Giulietta e Federico' (con Puck Koper, Camelozampa 2020). Per Edizioni Primavera dirige la collana ‘i gabbiani’, letteratura teatrale per giovani lettori).


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