Burano, quel Carnevale autentico prima di Venezia

di TONI JOP*

(immagini dell'Associazione artistica culturale di Burano)


Via dalle mascherine “eleganti”, via dalle foto spiritose, via da quell’andare intruppato, via da tutto questo. Soprattutto via dai riflettori, dalle telecamere avide, dalla fabbrica di una storia che si costruisce come un rotocalco, fondamentalmente per immagini. Siamo a  Burano, dopo il tramonto del sole, in un angolo – particolarmente d’inverno – sperduto nella laguna,  negli anni Settanta. Quando il Grande Carnevale Veneziano non era stato reinventato e il mondo non era ancora stato educato a desiderare una scena sontuosa ed estatica, molto servita da un carnet centrato sul teatro e sulle sue mille suggestioni.


ASSOCISZIONE ARTISTICA BURANOjpg


Lì, in un angolo del tutto fuori-fuoco del palco veneziano, per anni si è celebrato senza fragori mediatici un curioso carnevale dei ragazzi della laguna. Una festa senza pennone: Rousseau diceva che per fare una festa di popolo è sufficiente issare un pennone in piazza e il gioco identitario di massa riesce. Ma a Burano non c’era pennone, forse qualcuno suonava in Piazza Baldessarre Galuppi, ma nessuno si filava quel rock-pop. Quindi? Niente movente? Perché cacciarsi in quel buco-di-culo del globo così scomodo, così aspro, così poco accogliente, per fare che? Loro sapevano perché, spesso senza ricordare di saperlo. Ed era una molla potente, in grado di fluidificare una fascia generazionale per poi spingerla verso quell’isola celebre per i colori dei suoi edifici tuttavia del tutto inapprezzabili di notte e con la nebbia, a fare niente. Niente di sociologicamente rilevante al punto da meritare la “Visione”, gli occhi del mondo puntati. Quindi, il più chiassoso, celebre carnevale del mondo, assieme a quello brasiliano, è stato preceduto dal più silenzioso e scontroso carnevale della terra animato quasi esclusivamente dal popolo giovane della laguna. Le due esperienze si sono incollate temporalmente l’una all’altra, come fasi di un’onda che prima di infrangersi provoca una risacca e Burano, in quella dinamica, era la risacca. 


CARNE BURANjpg


Migliaia di ragazzi, quanti ne servono per intasare la via principale dell’isola, larga e dritta, a lungo, come un fuso, tutte le osterie e la maglia di “callette” strette attorno alla piazza, un fiume vero in una laguna nera, un blob umano votato con devozione ad una sola operazione: il fine ultimo era cercarsi e , nella confusione controllata, perdersi per poi ritrovarsi in un tempo in cui la parola “festa” proteggeva forse sensi diversi da quelli che oggi detiene. Allora, le feste erano il luogo in cui ballare, intrecciando corpi, ma la danza aveva dignità solo perché in grado di garantire come nessun’altra attività umana l’incrocio dei sessi sull’altare, ora in forte crisi di “vocazioni”, della riproduzione del genere umano. Si andava a Burano, quindi, come si sarebbe andati a una festa in casa d’amici, a cercare calore ed emozione, grazie a labbra, fianchi, seni. Ma con un’aria più furbetta: perché lì poteva accadere ciò che mai sarebbe accaduto in quella casa d’amici, e cioè che l’incrocio avrebbe potuto contare su un generale abbassamento dei “target” soggettivi in favore di una nuova, inesplorata, disponibilità al contatto. 


CARNE BURANOjpg


Ai ragazzi interessava moltissimo questa finestra permissiva, temporanea e affidata al fato, alle ragazze anche, ma meno: è più facile trovare bamba tra i maschietti che tra le minigonne, l’abbiamo capito. Questo fine ultimo procurava una enorme dose di emozioni bisex e molto, almeno così la si viveva, dipendeva dal grado di sovversione degli abituali rituali del contatto che il carnevale d’istituto suggerisce. Ma come si fa a fidarsi del potere di una istituzione nata infingarda, che propone un inganno, che si fonda sull’ipotesi di una extra-territorialità ritagliata dai territori della morale comune? Eccitazione per quel “passaggio” e sotterranea diffidenza pressoché totale nei confronti delle istituzioni consigliavano di compiere dei passi in totale autonomia per allestire la chimica del contatto-facile-non-importa-con-chi: conveniva alleggerire propedeuticamente la tensione del “mezzo”, il cervello, per sottrarlo allo stra-potere delle convenzioni. Niente di meglio, allo scopo, di alcol, canne, funghi che allora andavano forte, per cui Venezia poteva assistere per ore ad un esodo di ragazze e ragazzi che seguendo mille direttrici si avvicinavano agli imbarcaderi delle Fondamente Nuove con l’aria di zombi sereni, calpestando miliardi di coriandoli incollati a terra, residuo di un residuo di carnevale che in quegli anni in città appassionava solo i bimbi. 


CARNE BURANAjpg


Da quegli imbarcaderi partivano i vaporetti diretti a Burano. E’ bene annotare che tutto questo avveniva in una nuvola di freddo umido intollerabile soprattutto dopo il tramonto del sole, e che, inoltre, le giacche di piumini non erano ancora state urbanizzate e ci si copriva con cappotti e sciarpe, fatta eccezione per qualche pelle di montone importato dalla Svezia: questo stato di cose fa capire quanto il freddo fosse, nei tempi lunghi, padrone assoluto del campo; in via Baldessarre Galuppi dopo un po’ si ghiacciava e restare, senza alcol in corpo, era un’impresa. Il che metteva nel conto un indispensabile incremento di sostanze allegre nel sangue. Ma già il viaggio in laguna era un’avventura psichica. Per quasi un’ora centinaia di umani intasavano di occhi perlopiù illanguiditi dalla stanchezza, dal freddo e dagli eccipienti, tutti gli spazi del vaporetto, a partire da quelli esterni, esposti al buio gelato incattivito dal vento dell’andare nel nulla ostile dell’acqua, perché nulla si vedeva attorno al rumore dei motori marini. Volti sbiancati, occhiaie esplose in cerca di qualcosa da mangiare, il primo bisogno una volta sbarcati senza fretta a Burano sapendo che sarebbe stata durissima. Non è tardi ma è tardi per mangiare perché restano solo i “bussolai”, grandi biscotti buranelli, dolci cerchi, croccanti, buoni e te lo raccontano quelli che, sfiniti dalla lotta per la sopravvivenza, come onda di ritorno che non vuole tagliare i ponti col presente ma le piacerebbe, espulsi per legge fisica da bar e osterie troppo piene, si stanno avvicinando agli imbarcaderi fronte laguna. Che importa, il gioco vale la candela. 





Così, immersi in una fiumana gigantesca, si andava a caccia di cibo, impiegando anche un quarto d’ora per riuscire ad infilarsi in una osteria dove il clima era più mite e le ragazze sembravano più belle, pur sapendo che te ne saresti andato a mani vuote, ma a carnevale si poteva fare, anche senza mascherina con gli occhi di gatto. Bastava un urto quanto si vuole modesto con un altro corpo per accendere i motori: il contatto fisico, una immediata occhiata alla persona urtata, un sorriso, un bicchiere di carta che passa di mano in segno di pace… “Ti conosco?”, “No…” “Ma sei di Castello? Ti riconosco dagli occhi…”, “Sì!!!”, ma non esistono, ovviamente, occhi da castellana e chissenefrega, è fatta, la storia è fatta come il miele, lì a Burano, come i “bussolai”, per te che volevi salato, volevi un fritto di pesciolini pescati a Mazzorbo poche ore prima, pane fresco e vino buono e hai ceduto al dolce, anche di quegli occhi di ragazza con le occhiaie scolpite.

 Le compagnie si sfaldano nella confusione, perdono pezzi, le coppie spesso si sciolgono, i singoli nuotano veloci in quell’odor di vino e birra che governa la scena in cui tutti cercano qualcuno, per un motivo o per l’altro. E molti si baciano, restano avvinghiati sulle sedie dei bar, seduti a terra accanto all’ingresso, scavalcati da centinaia di pellegrini senza pace e senza cibo, sui tavoli delle trattorie che ormai hanno chiuso le cucine e di quel mondo febbricitante di bollicine infuocate resta solo il profumo del pesce fritto, giusto a ricordarti che non sei in Tirolo. Poi si esce da quella bolgia protetta dai muri delle osterie svuotate dall’orda e ci si rifugia nella madre di tutte le bolge, quella che, insensatamente tanto quanto divinamente, ondeggia per strada, all’aperto, dove è più facile, per una volta, fare l’amore, perché a carnevale assurdamente la folla protegge l’intimità, la assolve dall’accusa morale “certe cose si fanno al chiuso”. Certo, non puoi prendertela se mentre sei alle prese con un “Grigioperla” ermetico qualcuno ti chiede “cazzo, dov’eri finito? Hai visto per caso Francesca?”, non puoi. 





Lì, a Burano, il gioco del carnevale, spogliato di tutti i simboli di potere, riusciva, l’intreccio funzionava, il fato aveva la meglio sulle convenzioni e sulle ragionevoli opportunità dei riti. Lì, tra fragranze normalmente offensive brillava la natura del gioco originario, quello dell’intreccio casuale, liberatorio, slegato da qualunque programma esistenziale oggi ammazzato dalla versione cartonata del carnevale di Venezia, sempre più di massa, sempre più rigido segno di potere, e sterile come una garza. Comunque, il carnevale di Burano in quella versione non esiste più da molto tempo. Era la fine degli anni 70. Agli inizi degli anni Ottanta, si accesero i riflettori e Venezia offrì il suo bel corpo al mondo mentre prendeva vita il magnifico carnevale di Maurizio Scaparro. Ma è un’altra storia.


*TONI JOP (nasce a Venezia nel 1951. Inizia a lavorare per l’Unità verso la metà degli anni '70 interrompendo gli studi di Medicina. Dirige l’inserto locale prima di trasferirsi a Roma e di fare l’inviato, poi caporedattore di notte, capo degli Interni, capo degli Spettacoli. Corsivista e opinionista. Collabora con Panorama diretto da Carlo Rognoni. E’ tra le firme del sito “strisciarossa.it”. Autore di testi teatrali e di trasmissioni radiofoniche nazionali. Docente presso i master in giornalismo dell’Università di Tor Vergata. Autore dei libri “Grillo in parole povere” e "Venezia siamo stati noi", Città del Sole Edizioni)

clicca qui per mettere un like sulla nostra pagina Facebook
clicca qui per rilanciare i nostri racconti su Twitter
clicca qui per consultarci su Linkedin
clicca qui per guardarci su Instagram