BosniArizona, alla ricerca del credito perduto

di ARTURO CIOFFI *

Sull’argine della Sava, con la Croazia di fronte, le tombe erano inclinate a 45 gradi come per favorire un ultimo sguardo a Bijeljina e, più giù, a tutta la Bosnia. Chissà se erano quelle dei 17 ammazzati dalle Tigri di Arkan, saltati in aria nel Cafè Istanbul mentre fumavano il narghilè. Sul marmo nero delle lapidi, le foto a figura intera dei deceduti ivi stampate forse guardavano ancora più lontano, ma nella dimensione temporale.

Mai mangiato così bene in Bosnia come in quel ristorante che sembrava chiuso, ma che si rianimò quando arrivammo. Eravamo guidati da quello che in Italia avremmo definito un Uomo di Rispetto. Ma qui la cosa è molto più complessa, c’entra il nećistakrv, il sangue impuro che affratella tutti, sia pur nell’odio, che è un sentimento intermittente, una crisi epilettica della ragione. Paura e rispetto si confrontano da secoli, come da noi l’uovo e la gallina. All’ingresso, dietro alla cassa, una foto di Muslimanski Mudjahedina con teste mozze in mano, di sicuro serbo – bosniache, stava a ricordarci che qui nessuno è innocente. Gli anni passati da quei fatti già erano più di quelli che ci misero francesi e tedeschi a seppellire l’ostilità ereditaria e ad abbozzare l’Europa Unita. Ma qui scorre la Drina, non il Reno.

Bratco (leggasi Bratso) il fratellino, alto due metri, fu quello che ci fece entrare ed uscire vivi dalla “Arizona” bosniaca. Non era la guardia del corpo, ma il nostro passaporto: chi è con me è dei nostri, odjebi!Smammate!  Brćko e la sua piana mercantile sono come il bar di Guerre Stellari, ma ci ritorneremo. Qui ci vuole l’antefatto.

C’è chi in Bosnia e nelle zone della guerra civile c’è andato a fare il reporter, chi a scopo umanitario, chi, come le truppe ONU, ad interporsi tra quelli che si scannavano. Io e mia moglie ci andammo a dar man forte a Vedran e Vedrana, una coppia croata che, in quei luoghi turbolenti, aveva un sacco di gente che doveva loro dei soldi. Erano tutti i camion di ortofrutta che avevano mandato quando qui nei campi sbocciavano solo le mine. Un prosaico recupero crediti, direte, ma bisogna provare… Eravamo il loro scudo, fuoristrada con targa veneta, i nostri passaporti italiani messi davanti ai loro ai check point e turisti (parola croata…) da dichiarare agli increduli doganieri. E perplessi pure i militari italiani che ci facevano festa quando li incontravamo, e talvolta pure il saluto militare.

mostar-3732480_960_720jpg(Mostar       foto Pixabay)

Chi non sa come si ragiona nei Balcani si chiederà quale legame avessimo con Vedran e Vedrana sì da accompagnarli in luoghi dove stracci bianchi con la testa di morto appesi agli alberi stavano a dirti di non metter piede nel bosco, che era minato, nemmeno per piccole necessità fisiologiche. Semplice il motivo: in un affollato ferragosto ci avevano ceduto la loro camera da letto ed avevano dormito loro sui due divani cui noi ambivamo perché era tardi per cercarsi un hotel. Qui i favori non si pesano, si contano e basta.

Banja Luka fu la prima tappa. Non era stata toccata dalla guerra civile, ma i dintorni sì. La sera, nei cafè-bar, quelli che si sparavano addosso al vicino fronte, mescolati a camionisti coraggiosi, bevevano gomito a gomito, condividendo fraternamente le poche temerarie puttane, per lo più nonne oscenamente dipinte. In pé, avrebbe detto lo sconsolato Jannacci, all’epoca ancora in gamba.

La città era un foro cadente di rovine di ogni epoca. Tracce di sinagoghe sefardite e di chiese ortodosse distrutte nel 1942 dagli Ustaša capitanati - guarda un po’ – da un frate francescano e freschissime macerie di moschee e di minareti, tutti abbattuti quando a Banja Luka si insediò la Srpska Republika Bosne i Hercegovine. E ci provarono poi, quelli dell’Unesco, a ricostruirne una, già loro patrimonio. Pensavano che una su sedici si potesse… ma accadde il finimondo. Perkédžamija? Kvi no più muslimani! L’unica cosa caduta senza guerra era un grandioso palazzone d’architettura assiro–titina, che fece posto alla piazza dove bevemmo turska kava e Stock’84 che, stranamente, aveva uno stabilimento nei paraggi. L’edificio titino onde trattasi fu chiamato dal progettista (guai a ridere!) Titanik e venne giù come un castello di carte col terremoto del 1969.

Alloggiammo in un modernissimo resort dove in contemporanea si svolgeva la prima riunione del Parlamento della Srpska Republika.

I parlamentari si distinguevano dai miliziani perché avevano la pistola ascellare e non il kalashnikov. La sera, in una taverna tutta riservata a noi, con vista sulle acque chiacchierine del Vrbas, fummo allietati da un’orchestrina più ungaro–pannonica che tipo Goran Bregović, alla quale, per pochi indimenticabili minuti, mi aggregai come chitarrista. Il debitore offrì la cena e saldò il debito ortofrutticolo in marchi tedeschi, che presi senza contarli… guai a Dio, qui si offendono!

Prima eravamo passati per Vukovar e Osijek, Eszék in ungherese, per dire dove siamo, nell’estrema Slavonia croata. Sulla Drava. E nel giardino del lussuoso hotel sulle sue rive allungai una mano e toccai acqua italiana, del Sudtirolo.

Nell’Hotel Adler (Aquila) di Niederdorf, Villabassa per noi, in Val Pusteria, nella spa, se esci dalla sauna bollente ti svegliano facendoti entrare fino al ginocchio in un torrentello gelido, sempre al coperto, però. Signore e signori, ecco la Drava in condizione embrionale!

Avessi versato una lacrima in quel momento, per il freddo, si sarebbe confusa nella corrente, di lì a poco sarebbe entrata in Austria, a Lienz, a Villach sfiorando il Friuli e poi giù a Klagenfurt ed in Slovenia, a Maribor, poi in Croazia, a far da confine con l’Ungheria e qui, ad Osijek, a sfiorare la mia mano e poco dopo si sarebbe tuffata nel Danubio, verso la Serbia, fino a Belgrado ad incontrare la già nota Sava, e poi varcare le Porte di Ferro, la Romania e l’interminabile e confuso delta che finisce facendo il solletico alla piccola Moldova e muore nel Mar Nero d’Ucraina col desiderio insoddisfatto di vedere Odessa.

Ah, le sliding doors della vita! Fossi stato in un centro benessere pochi chilometri più giù, a Riscone (Reischach) sede dei raduni estivi della Roma, dalla parte mediterranea dello spartiacque, la mia lacrima sarebbe finita tra le anguille di Comacchio, capitoni se femmine!

Uscendo dall’Hotel Osijek, passammo in rassegna le valigie Vuitton di Mr. Emir Kusturica e poi incontrammo Lui, le cui origini punk non facevano velo alla sua schietta bruttezza.

Ci avviammo per un corso in stile asburgico, dove le case che guardavano la linea del fronte erano sfregiate da artiglieria leggera, mentre quelle che ad esso volgevano le spalle erano intatte. In un sobborgo anonimo ci accolse sul sofà Jasmin ed il suo harem, la moglie e quattro figlie, tutte uguali. Dal piacevole insieme si distinse Fatma, la moglie, solo perché servì il pranzo senza parteciparvi, al pari delle figlie, che assistevano silenziose al salmodiare del padre, che stava elencando le disgrazie che avevano condotto alla sua insolvenza.

Nessuno comprava più da un musliman, se non altri muslimani, che però erano spariti a vario titolo. Lui no, era benvoluto perché faceva credito a tutti i croati, e qui iniziò la sua rovina. Qui nei Balcani trg è piazza e trgovina commercio. Non è agorà ma ha una sua etica: chi vende valuta il compratore e se questi va in rovina non fraudolenta il fornitore accetta il bad debt con reazioni circoscritte ad esecrabili bestemmie, tra una portata e l’altra del pranzo riparatore.

bosnia 3jpg(Banja Luka          foto di Arturo Cioffi)

Arizona, dicevamo. Ci arrivammo da Banja Luka. Bratco ci aspettava fuori Brćko. Eravamo in un territorio furbescamente non rivendicato né dalla Bosnia, né dalla Serbia e men che meno dalla Croazia che era al di là della Drava. Zona di libero scambio tra mercanti di tutta l’ex Jugoslavia, rom di Jagodina inclusi, a grappoli, e delinquenti internazionali, per lo più ladri e contrabbandieri. Mancava un tempietto a Hermes, nume tutelare di tutta questa bella compagnia.

Si sparpagliava disordinatamente su una distesa fangosa, grande come un grande aeroporto. Bordelli di finte minorenni, alcune con un filo di barba al mattino e negozi di merce fine su palafitte, autocisterne di carburante pronte alla mungitura,  piramidi maestose di angurie, camion e rimorchi rubati che esponevano direttamente il contenuto, pronti ad essere venduti separatamente o in take – away, compri il camion e ti porti via le lavatrici, le piastrelle di Sassuolo, le pecore…

Ho visto pianoforti a coda suonati da smunti ex – orchestrali della Filarmonica di Sarajevo, presi a nolo (i pianisti) fino a vendita dello strumento, ho ammirato indossatrici e indossatori di capi di firma, rubati a Milano o taroccati a San Giuseppe Vesuviano. Fu lì che ci vestimmo di robe di Prada e di Armani, merce buona previa minacciosa expertise del buon Bratco, che non ci capiva niente ma con lui non si scherza.

“Droga ništa. Niente droga, se non all'ingrosso. “Kvi se radi,se lavora“. Non volevano balordi in giro, volevano stare trankvili.. 

Direte voi: “Ma lì, c’era proprio niente di legale?” ed io dico sì, uno smagliante prefabbricato con prevalenti note di rosso. Era l’equivalente balcanico della Vodafone (che cito solo a caso) e Védran ci tenne a dirmi che no sempre kvelo ke jè legalo jè honesto!

minefield-203740_960_720jpg(foto Pixabay)

A Sarajevo ci arrivai all’alba, dalle sue fosche alture un tempo poligoni di tiro ed ora pacificati cimiteri. Fu l’ultima volta che la vidi e dirò poche cose, avendo la consapevolezza che tutto o quasi sia già stato detto.

La Torre Hum della RTSA, la Radio Televizija Sarajevo, abbattuta che era di maggio nel 1992, presso la quale ci fermammo a meditare.

I palazzoni a 15 piani, un tempo della burocrazia e della intellettualità serba, ora esiliata a Tuzla o a Banja Luka. O a Stoccolma, per dimenticare una vita. Ora occupati da contadini musliman  a loro volta spostati dalle campagne annesse al territorio della Srpska.

Ospite di Davorin, in campagna maniscalco ed ora taxista, scalai a piedi uno di questi edifici. Sul lato della montagna, pareti intere sventrate da colpi di mortaio, a volte riparate con lamiere ed assi di legno per l’edilizia. Il legno… tutto ciò che era combustibile nel palazzo era stato bruciato nel freddo inverno.

Su un balcone, ma puzzava lo stesso tremendamente, la capretta: Amaltea, la divina nutrice, simbolo di rinascita.

Nei vremena zla, nei tempi cattivi, come dicevano loro con un certo pudore, aveva nutrito Elmira, l’ultima nata, brucando la rada erba che trovava sul lato protetto della casa. Tenuta strettamente al guinzaglio, che non sconfinasse, che sparavano a tutto ciò che si muoveva, e sarebbe diventata protagonista di poche, tristi grigliate.

Di ritorno dal Bazar, trovammo il foro di un proiettile  sul cofano della macchina. Niente faceva pensare che fosse un salutino per noi, ma, senza nemmeno dire ciao a Davorin che si era accampato dai vicini per cederci le sue due stanze da letto (ci sdebitammo poi) varcammo per l’ultima volta la Milijaćka e puntammo verso la valle della Neretva, un fiume carico di storia. La mia proposta di pernottare a Mostar fu accolta con terrore da Védran, nel caso qualcuno del posto si fosse ricordato dei suoi compaesani di Bosnia che avevano buttato giù il vecchio caro ponte, lo Stari Most.

 sarajevo-2101391_960_720jpg(Sarajevo         foto Pixabay)

Puntammo come schegge verso il mare. Al duplice posto di frontiera i militari di ambo i fronti dormivano. Superammo la terra di nessuno a passo di lumaca, con tanta strizza, sostenuta, nel dubbio, dal buco da arma da fuoco nella carrozzeria. Alla frontiera croata sgommammo lesti e dopo poco vedemmo stelle e mare, inebriati dal profumo dei mandarini di Metković. 

Avevamo pacchetti di marchi tedeschi infilati dappertutto. Da questa furbesca operazione fu lasciato indenne il reggiseno di Védrana, già imperioso di suo, sì da non consentire il menomo, ulteriore apporto senza destare allarme tra i doganieri.


* ARTURO CIOFFI (Longevo Consulente Finanziario, nasce nel 1944 sul fronte della Quinta Armata nel Sannio ma mezzo napoletano e poi mezzo veronese nell'era ginnasiale. Mancato professore in lingue morte, approda nella finanza laica della Banca Commerciale. Completa il profilo diventando pure mezzo slavo, attratto dagli eccessi terribili e meravigliosi di quella cultura. Tra nuvole e numeri, scrive per rinfrescare l'ortografia)

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