Binbirkilise dell' Anatolia e le lezioni della signora Tutash

di EMILIO RADICE

Nel cuore dell’Anatolia, dalle parti di Karaman Maras, c’è un villaggio che già nel nome un po’ è fiaba e un po’ una lezione di lingua turca. Si chiama Binbirkilise se lo dite d’un fiato. Ma se ne scandite bene le sillabe il suono accende nell’aria un abracadabra: Bin (mille)! Bir (e una)! Kilise (chiesa)! E quel tratto di terra arida e sassosa diventa un luogo di meraviglie.

Credo che per me già il fatto di esserci voluto andare sia stato frutto di magia, perché sennò non ci sono ragioni che giustifichino la lunga strada percorsa, la cocciuta ricerca del luogo anche in assenza di cartelli,  l’inerpicarsi per viottoli sassosi che d’inverno sono letti di ruscelli. Poi uno scavalla un dosso ed eccolo là Binbirkilise: un grumo di ovili in una valletta e poco più in alto i ruderi di alcune antichissime chiese bizantine, tutto in pietra grigia, sotto un sole implacabile, senza alberi e cespugli.

La comune ragione turistica vuole che uno vada verso le rovine per osservare e fare foto, e così è stato fino al momento in cui nell’aria è volata una tartaruga, sì una grossa tartaruga che si è schiantata a terra, dalla parte del guscio, davanti ai piedi miei e di due amiche che erano con me. E la magia ha cominciato a dare il meglio di sé. Perché mentre giravamo l’animale per rimetterlo sulle sue zampe, da dietro un muretto a secco è sbucata la testa di un uomo anziano che ci guardava stupefatto: aveva trovato la predatrice di insalata nel suo piccolo orto protetto da una cinta di pietre e l’aveva frullata via. Mai avrebbe pensato che al di là del muro avrebbe incontrato dei soccorrevoli turisti occidentali. Da lì il viaggio anatolico ha incominciato a scrivere una pagina del tutto particolare e inattesa. Indimenticabile. Voglio ancora oggi un bene immenso a Binbirkilise per quello che accadde, per l’amore che ci ho trovato. Anzi, per l’amore che ho vissuto.

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La tartaruga fu il tramite fra noi e il resto del villaggio, perché dopo di lei non fummo più soli. Dopo il vecchio dell’orto ci raggiunsero due ragazzi arrivati di corsa dalla zona degli ovili. Con una comunicazione affidata solo ai gesti ci dissero che dovevamo scendere giù, alle case della piccola valle. Non comprendevano che cosa ci facessimo lì fra i ruderi, a scattare fotografie. Bere, mangiare: mimando con le mani portate alla bocca ci facevano capire loro quello di cui avevamo bisogno. Una mano in alto, contro il sole: è caldo, troppo caldo. Un dito puntato verso le casupole: lì c’è ombra, si sta bene, c’è da bere, c’è da mangiare. Venite, venite….

Confesso che all’inizio ero diffidente. Il luogo poi era talmente isolato che non ci sarebbe stata  la possibilità di lanciare allarmi. Soprattutto, non capivo perché tanta premura nei confronti di tre sconosciuti. Lo avrei capito dopo. Ma intanto non ci restò che seguire i giovani pastori fino a una delle case di terra, paglia e sassi (molte pietre erano state “giustamente” prese in prestito dalle chiese bizantine) in mezzo agli ovili. E venimmo fatti entrare nella dimora dei Signori Tutash, la S maiuscola è un dovere.

La casa, bassa e con il tetto piatto, era composta da un unico ambiente rettangolare col pavimento in terra battuta, parzialmente coperto da stuoie e feltri. Torno torno erano disposti vari cuscini di spessa tela di lana ricamati a mano. Non c’erano mobili, tavoli e sedie, né c’erano ornamenti, salvo poche cose appese a una parete. In un angolo alcune pietre poggiate a terra delimitavano il focolare, ed era la loro cucina. Poi più niente. Venni fatto accomodare fra due cuscini, accoccolato, e il padrone di casa si sistemò a gambe incrociate a ridosso della parete di fronte. Intanto le donne, tutte le donne del villaggio, cominciarono a entrare nella casa per salutare baciandomi la mano. “Mustà”, dicevano, “Mustà”. Poi andavano via. Le più giovani si intrattenevano da un canto con le mie amiche in un invidiato scambio di henné, profumi, fazzoletti e anellini vari. Gli uomini invece, dopo un “salam aleikum”, si mettevano a sedere accanto al padrone di casa, davanti a me. Il problema era andare oltre il salam, perché davvero non c’era uno che sapesse una parola di inglese. Dunque i salam si sprecarono per decine di minuti, in un cerimonioso fronteggiamento interrotto soltanto da una reciproca donazione: il Signor Tutash mi regalò una zucca vuota da cui bere e io ricambiai con un paio di pinze. Intanto nell’angolo del focolare la magia che ci aveva portato lì stava preparando il gran finale.

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Una donna molto anziana con un mattarello fino come un bastone preparava focacce di pane. La moglie del Signor Tutash, invece, sistemò al centro della stanza un grande vassoio di rame. Le donne si tenevano il velo fra i denti, per non farlo aprire mentre si davano da fare. Ma era sicuramente un riguardo verso gli ospiti,, un “comportarsi bene” dovuto all’occasione.  Fatto sta che a un certo punto la Signora Tutash, sistemate le pietanze sul vassoio, sollevò una focaccia di pane verso di me, la arrotolò a forma di cono e mi disse: “Ekmek!”. Era il nome del pane, e lei voleva farmelo sapere. Ma nel dirlo il velo le cadde dai denti e il marito con un rimbrotto la richiamò. 

Lei lo riprese fra le labbra. Poi nel pane mise alcuni ritagli di cipolla: “Sogan, sogan…”. E giù di nuovo il velo, e nuovamente il marito la riprese. Poi dopo la cipolla nel cono di pane finì un uovo sodo: “Yumurtà” fece la donna mostrandomi l’uovo fra le dita, “yumurtà!”. E si ripetè la solita scena del velo. Poi fu la volta del sale: “Tuz, tuz!” mentre ne faceva cadere un pizzico nel cono. E infine porgendomi il tutto la Signora Tutash mi rivolse l’invito a mangiare con un clamoroso “Aahm!”, spalancando la bocca e mimando il gesto di un bel morso. Il velo… il velo se ne era andato a benedire. Ma il marito ci teneva a non fare brutta figura e le lanciò un ultimo richiamo. Non l’avesse mai fatto: la moglie si arrabbiò di brutto, gliele disse di tutti i colori (turco o non turco si capiva benissimo) e gli diede una manata sulla spalla che lo fece traballare. Il velo non tornò più su.

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Cari, cari Signori Tutash. Non vollero nulla da noi. Non ci avevano mai nemmeno pensato. E alla fine, quando chiesi se potevo far loro una fotografia, dissero sì ma mandarono tutti fuori casa. Rimanemmo soli, io e loro. Si misero sull’attenti, uno accanto all’altra, a ridosso della “parete buona” della loro casa, quella con i pochi ornamenti. La foto era una cosa seria. Ma soprattutto loro, la loro ospitalità, la loro gentilezza, la loro intelligenza, la loro semplicità, erano quanto di più serio e bello abbia mai incontrato.

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Quando fui nuovamente in Italia feci una stampa della foto, la stessa che potete vedere in questa pagina. E’ un po’ scura perché scattata in condizioni impossibili, ma loro, i Signori Tutash, si vedono abbastanza bene. Infilai la copia in una busta e la inviai con poche speranze a: Famiglia Tutash, Binbirkilise, Karaman, Turchia. Passarono parecchie settimane quando mi arrivò una risposta, scritta da una bambina su un foglio di quaderno di scuola. Portai la lettera al centro del turismo turco di piazza della Repubblica, a Roma, per farmela tradurre. La giovane impiegata prendendo il foglio con la punta delle dita ne lesse le prime righe ed esclamò: “Ma sono pastori!”, guardandomi quasi con disappunto. “Dicono che hanno avuto giorni molto duri per il freddo e la pioggia. Sicuramente vorranno del denaro”. Io le risposi: “Lo chiedono?”. Lei: “No ma…”. La interruppi per dirle: “Non li offenda”, e me ne andai. Poi davvero inviai loro cento dollari che avevo da parte. Allora mi arrivò un’altra lettera. Era tutta profumata. Il profumo di cui era intrisa aveva in parte dilavato l’inchiostro con cui era stato scritto il mio indirizzo. Dentro c’era un foglietto ripiegato e dentro il foglietto c’era un filo di erba verde. Era il massimo che potevano donarmi da un luogo senza fiori, bruciato dal sole e dall’inverno.


*EMILIO RADICE (Nato nel 1949 a Roma, a metà strada fra la Napoli paterna e la Livorno di mammà, ha lavorato prima a Paese Sera poi a Repubblica. Motociclista convinto, spesso si perde in lunghi viaggi solitari alla ricerca di tracce filosofiche e reali)


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