Berlino d'antan, mitra in faccia e vopos al checkpoint Charlie
di AMLETO VINGIANI*
Era l’estate del 1986, nella gloria dei 30 anni con mio cugino Leo stavamo esplorando l’Est d’Europa, qualche anno prima che la gabbia di ferro si spezzasse. Si veniva da Praga per andare a Berlino Ovest attraversando la Germania dell’Est senza potersi mai fermare, pena l’arresto: lì il turismo non si poteva fare proprio. Si aveva ancora negli occhi e nell’anima la visione di quella meravigliosa Praga un po’ cadente, metafisica per gli spazi barocchi vuoti di persone, il ponte San Carlo con i suoi angeli precipiti e una nebbiolina che ne rendeva magiche le luci dorate. Splendore e malinconia ben si accordavano al mio stato d’animo di quel tempo, in cui ancora mi laceravo per un amore perso.
Ma lasciata la malinconia ora si tornava all’avventura, perché era da terrore puro correre attraverso boschi e pianure desolati senza potersi fermare neanche per far benzina; ti chiedevi che cosa sarebbe accaduto se l’auto avesse avuto un guasto ma provavi a non pensarci. Pensavi invece che stavi attraversando la mitica Germania dell’Est, uno dei luoghi più segreti d’Europa, e ti sentivi un po’ eroe un po’ folle. Poi, eccoci infine a Berlino Est; Leo propone che per accedere a Berlino Ovest, piccola enclave occidentale in un mare di Est, si scelga il Check Point Charlie. Io non so manco che è, ma lui mi chiarisce che è quello dove si fanno gli scambi di spie, quello che compare nei romanzi e nei film e allora via, si va.
Attraversai Berlino Est con la mia Ford Escort come attraversassi la mia Napoli, io che ora tremo anche ad attraversare Roma in macchina. Arriviamo al checkpoint, filo spinato ovunque, vopos dappertutto, qualche blindato: che esagerazione! E chi dovrebbe venire fin qui a farvi la guerra? Ci mettiamo ordinatamente in fila e aspettiamo il nostro turno. Tocca a noi, il cuore batte. Un vopo in verde e con mitra ci chiede in tedesco i passaporti che gli porgiamo con un sorriso, sperando nei suoi neuroni specchio (che all’epoca non conoscevamo). Lui senza sorridere non li guarda neanche, entra nella garitta e li mette in un cassetto che chiude a chiave.
Io e Leo ci guardiamo in faccia constatando quanto il nostro colorito tenda al bianco ed ecco che mi ricordo che abbiamo valuta ceca in banconote, alcune corone rimaste in tasca. Non puoi portarla oltre frontiera, reato di esportazione di valuta, ma non puoi neanche stracciarle, reato di vilipendio. Propendo per il vilipendio e mentre Leo fa da vedetta straccio rapidamente e metto nel posacenere sotto i mozziconi puzzolentissimi. Mentre ancora mi interrogo sulle banconote stracciate ecco che io e Leo ci troviamo un mitra in bocca, ognuno il suo, imbracciati da vopos dallo sguardo gelido. Ne arriva un terzo, alto e possente, che comincia ad urlare in tedesco minacciandoci con l’indice, noi chiediamo in inglese cosa di male si sia fatto, ma quello continua ed inveire in tedesco e ogni tanto, a nostra maggior consolazione, intercala con : “Italiani, maccaroni!”.
Chiediamo di uscire dall’auto ma i mitra non si muovono dalle nostre bocche. Allora capisci cosa vuol dire insignificanza e capisci che se ti faranno scomparire in quella frontiera con il nulla nessuno saprà mai più nulla di te, dei tuoi sogni e dei tuoi perduti amori. Ti vengono in mente le cose più atroci ma prima fra esse un campo di concentramento in cui tu sei un ebreo e lui un SS. Dopo i 5 minuti più lunghi della nostra vita il vopo ci spiega, in inglese quasi fluente, che siamo passati per il checkpoint diplomatico e questo è vietato agli stranieri. C’è una multa da pagare, nell’ordine di 400 marchi occidentali, cifra considerevole per l’epoca. E qui mio cugino Leo, gestore della cassa comune e possessore materiale del nostro denaro, diede prova di sangue freddo forse ma di profonda pidocchieria di certo: ebbe il coraggio con un mitra a 10 cm dal naso di dire: “ No, it’s too much!”.
Non credevo
alle mie orecchie. Gli sibilai: “ Caccia i soldi! Se non ti sparano loro ti
ammazzo io! “. Fece ancora qualche resistenza poi sborsò la cifra da lui
ritenuta eccessiva scuotendo anche il capo, il folle! Ci fecero scendere,
esplorarono la nostra auto con specchi anche sotto la carrozzeria, ci
chiamarono maccaroni ancora per un po’, poi si dedicarono ad altro, dopo averci
predato ed umiliato.
Palpavi con
mano il disprezzo per noi occidentali benestanti. Ci lasciarono andare.
Arrivato a Berlino Ovest baciai il
suolo, alla lettera. Un paio di giorni dopo tornammo, ma a piedi e insieme ad
altri turisti, a Berlino Est camminando sulla Unter den Linden deserta, girando
per una Alexanderplatz altrettanto deserta… Quel vuoto e quel silenzio sono
persi per sempre e per fortuna, direi, ma è ancora esaltante il ricordo in chi li ha
conosciuti.
*AMLETO VINGIANI ( *classe ’56, gastroenterologo ormai a tempo perso, a residuo rischio degli incauti pazienti. Vorrebbe essere cultore di cose umane. Vagamente artralgico, ha nostalgia di quando era un elegante tennista, anche se sulla definizione non vi è consenso fra gli amici)
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