Benvenuti a Caprera, libera repubblica di Garibaldi

di NICOLA FANO* 

La libera repubblica di Caprera ebbe vita breve ma molto significativa. Fu fondata con atto notarile alla Maddalena (lì, dirimpetto) il 29 dicembre del 1855 e ebbe fine il 2 giugno 1882: meno di trent’anni. Ben più della quasi contemporanea Repubblica romana che durò un pugno di settimane, ma comunque poco per stratificarsi nella memoria comune come l’evento di fondazione di questo nostro disgraziato Paese. Perché questo avrebbe potuto essere la libera repubblica di Caprera, ma non fu: il tentativo di una società anarchica e di una urbanizzazione alternativa – green si direbbe oggi – diversa da quella frenetica e scomposta che ha cementificato l’Italia dei Savoia. Il guaio è che il suo fondatore era un illuso seccatore: Giuseppe Garibaldi. Ecco, prendete questa nota come una visita guidata in una bolla di rancore storico.

Allora, cominciamo. Superato il passo della Moneta, il ponte carrabile che unisce La Maddalena a Caprera (ai tempi di Garibaldi, ovviamente, il ponte non c’era: quello su cui si transita oggi è stato rifatto qualche anno fa, prima c’era un bel manufatto di ferro costruito dal Genio militare a metà Novecento, prima ancora c’era un ponte girevole edificato nel 1890), si entra in un altro mondo: un vincolo prima militare e poi paesaggistico ha impedito che a Caprera si potessero costruire edifici civili. Quelli (civili, appunto) oggi visibili formano il piccolo patrimonio della libera repubblica di Garibaldi; quelli militari (la maggior parte, quasi tutti fatiscenti) sono stati costruiti dopo la morte del generale.caprera cala garibaldijpg

Se volete consegnarvi all’ufficialità, non avete che da visitare o la casa-museo di Garibaldi o il cosiddetto Memoriale Giuseppe Garibaldi, fortemente voluto dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Partiamo da qui: il Memoriale è una collezione di foto e filmini ben fatti ma un po’ sommari, sistemati nel Forte Arbuticci (da solo vale la visita), una stupenda fortezza fine Ottocento in cima all’altura Nord di Caprera, da dove si domina con lo sguardo tutto l’arcipelago, a ovest il Monte San Pantaleo in Gallura e a nord su fino alla Corsica dove troneggia il Monte Cinto (oltre 2700 metri di altitudine) con la sua cima inconfondibile sovente innevata da ottobre a aprile. Le cellette dei militari, le invasature per i cannoni, le feritoie sono da vedere: Caprera e La Maddalena sono gli ultimi baluardi geografici dell’Italia verso la Francia. E la Francia, fino al 1943, era considerata un nemico, sicché queste rocce sono inzeppate di fortezze e cannoni.

La casa di Garibaldi vera e propria è più giù, a mezza costa: dal Passo della Moneta si vede distintamente. È una fazenda bianca – sembra la casa dei Buendìa di Garcìa Màrquez – ossia una tipica casa sudamericana con il patio centrale su cui si affacciano tutte le stanze. Se la visitate, non mancate di ammirare un poncho di Garibaldi incorniciato e il letto dove morì: è misero (e pensare che era un eroe…) ma per morirci il generale se lo fece trasportare in una stanza così piccola che questo lettuccio di ferro battuto la riempie tutta. Lo fece mettere lì perché la finestra della stanzetta dà verso Nizza e Garibaldi voleva morire rivolto verso la città dov’era nato. Quando fu per spirare, dalla finestra entrarono due capinere; il generale chiamò la terza moglie, la signora Francesca Armosino Garibaldi, e le disse: «Non scacciarle, sono le mie figlie». Alludeva a Rosa e Anita, le due figlie morte bambine. Oggi a Caprera ci sono più gazze che capinere, però.

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Dal patio, volendo, si entra in un locale a metà tra la cucina e il ricovero per gli attrezzi. Lì dentro, tra l’altro, c’è da ammirare una specie di poltrona a rotelle sulla quale il Generale trascorse i suoi anni finali di artritico: quando andò a Roma per l’ultima volta, nel 1875, sbarcò a Civitavecchia sdraiato su quella poltroncina tirato giù da un paranco. Come gli elefanti dei circhi che – all’inizio del Novecento – andavano via nave in tournée in Sudamerica. La poltroncina a rotelle fu progettata apposta per lui da un fan inglese che gliene spedì una serie. Ogni volta perfezionandola. Ma non è mai andata in produzione, sicché è un cimelio garibaldino al cento per cento.

Sicuramente, poi, se visiterete la casa-museo vi porteranno a rendere omaggio alla tomba dell’eroe. È un sacello di granito, magnifico, con una scritta sobria: il nome e le date. Nessun aggettivo. Ma è un falso. Garibaldi, per sé, aveva ordinato un'altra fine: «Si formerà una catasta di legno di due metri con legno d’acacia, lentisco, mirto e altre legna aromatiche. Sulla catasta si poserà un lettino di ferro e su questo la bara scoperta, con dentro i miei avanzi, adorni della camicia rossa. Un pugno di cenere sarà conservato in un’urna qualunque, e questa dovrà esser posta nel sepolcreto che conserva le ceneri delle mie bambine Rosa e Anita». E basta.

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Ma la giovane Italia aveva bisogno di un mito, non di un uomo discreto. Lo Stato fece un funerale sontuoso a Roma con una bara vuota e poi invitò mezzo mondo a Caprera, per i funerali ufficiali al termine dei quali il corpo integro dell’eroe venne monumentalizzato nel granito. Il Generale si vendicò: in occasione del suo funerale l’Arcipelago fu investito da una tempesta spaventosa di ponente (il vento dominante, qui): gli ospiti illustri, i re e i consoli di mezzo mondo rimasero a vomitare per tre giorni – alla fonda dentro quella che oggi si chiama Cala Garibaldi, sotto alla casa, appunto, e dove il nostro teneva la sua barchetta a remi – prima che il falso funerale potesse essere celebrato con tutti gli onori del caso.

Liberati dalla visita ufficiale, guardate intorno alla casa: distinguerete un mulino a vento. Sì, proprio un mulino. A Caprera c’è parecchio vento: ma il grano? Garibaldi, su questo immenso scoglio di granito impenetrabile, voleva coltivare grano e produrre farina e pane: una repubblica libera deve essere anche autonoma. Costruì con le sue mani il mulino e con i figli Menotti e Ricciotti (più qualche altro fedelissimo) spaccò il granito un po’ più sotto. Verso Cala Garibaldi cercate un pianoro, c’è ancora: fino a qualche anno fa c’era l’orto di un ristorante, ora non più; solo terra incolta. Insomma, lì una volta c’era un campo di grano: ci dorme sepolto lo spirito del generale.

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Tornate al Memoriale, ma non salite fino alla fortezza: prima della rampa d’ingresso, c’è un quadrivio che si apre su due sentieri: prendete quello che indirizza a Cala Napoletana. Dopo dieci minuti di cammino e dopo aver rasentato le solite casermette semidistrutte che insozzano ormai tutta l’isola, troverete una pinetina che domina il cielo, cioè appare in alto, all’improvviso, piegata dal vento. È una delle tante pinete seminate da Garibaldi. Perché il nostro, che sulla carta d’identità si fece scrivere “agricoltore”, era un appassionato di botanica. Quando urbanizzò Caprera, contornò di pini tutte le strade principali. Gli stessi che si vedono ancora oggi. Come dell’epoca di Garibaldi sono tutti gli eucalipti che adornano l'isola: glieli regalò un altro inglese, perché si diceva che quegli alberi fossero un portento contro la malaria.

L’altro edificio civile d’epoca, a Caprera, è in fondo al fiordo di Stagnali. Era la dimora di una coppia solitaria di inglesi, ancora una volta. Nel 1855 Garibaldi, con l’eredità del fratello morto (il generale non fu mai pagato dallo Stato per i suoi servigi, mai), comprò mezza Caprera; l’altra mezza, appunto, apparteneva agli inglesi di Stagnali: quando i due morirono, nel 1865, ci fu una colletta pubblica per comprare l’altra metà e regalarla al Generale. Il quale, così, poté allargare i confini della sua libera repubblica a tutta l’Isola.

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Non c’erano padroni, a Caprera, benché il culto dell’eroe fosse inevitabile. Si mangiava nel patio tutti insieme (nel periodo di massimo sviluppo, a Caprera dimorava qualche centinaio di persone), molto prima del tramonto. Dopo cena, Garibaldi cantava qualche romanza d’opera accompagnato al pianoforte dalla figlia Teresita e poi, dopo gli applausi di rito, tutti a dormire. Sveglia all’alba per lavorare i campi, per rompere il granito dove dovevano passare nuove strade o dove si dovevano impiantare nuove coltivazioni: la libera repubblica era autosufficiente, anche se riceveva molti rifornimenti dall’Inghilterra, dove Garibaldi era eccezionalmente amato. Amato anche da numerose romantiche donne inglesi, per lo più nobili e danarose, che mandavano al suo indirizzo sterline e sospiri.

Perché, come detto, Garibaldi rifiutò sempre con sprezzo ogni pensione o vitalizio da parte del Regno d’Italia: voleva mantenersi indipendente dallo Stato. Ma quando morì, il 2 giugno del 1882, la vedova, la signora Francesca Armosino Garibaldi, accettò subito la pensione che il marito aveva continuamente rifiutato. In cambio, cedette allo Stato la proprietà di Caprera (tenne per sé e la figlia Clelia solo la casa-fazenda): l’esercito voleva metterci le mani in fretta per tempestarla di fortezze e cannoni, appunto. Sempre per via della storia del nemico francese.

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Sennonché oggi non è facile separare i resti della libera repubblica di Garibaldi dalle smanie militaresche dei Savoia: l’unica, è cambiare strada ogni volta che si vede all’orizzonte una costruzione militare, e seguire con tenacia solo le strade e i sentieri punteggiati da pini e eucalipti. Quella è roba di Garibaldi. Se poi vorrete camminare liberamente per le alture dell’isola, nei periodi giusti non sarà strano cogliere porcini o zafferano o genziana: miracoli della libera repubblica.


*NICOLA FANO (1959. Vive tra Roma e Torino dove insegna all’Accademia Albertina di Belle Arti l’astrusa materia di Letteratura e filosofia del teatro. Da quarantacinque anni va a teatro quasi tutte le sere e, giacché è recidivo, alla storia del teatro ha dedicato i numerosi libri che ha scritto. Detesta il calcio, ma gioca a pallacanestro: quando smetterà di farlo, con ogni probabilità, morirà)


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