BarToletti, come cambiare Facebook e vivere felici

di GIANNI CERASUOLO*

E’ stato uno dei volti televisivi più conosciuti, Marino Bartoletti da Forlì. Giornalista sportivo, conduttore di tanti talk show di Rai e Mediaset, opinionista, cultore del Festival di Sanremo e di musica sparsa. E prima ancora, o in contemporanea, inviato e direttore di quotidiani e settimanali. Di lui si sono perse un po’ le tracce nel lavoro che gli riusciva meglio, quello televisivo, in quegli spazi invasi da tanto tempo ormai da intrattenitori variegati che non hanno esitazioni nel coltivare i propri personaggi, spesso tromboni. Meglio se sguaiati.

Bartoletti esercita sui social e in particolare su Facebook, al punto da scrivere libri. E’ infatti uscito il suo quarto BarToletti, una raccolta di post facebbucchiani dal maggio 2019 all’inizio dello scorso mese di giugno. Covid compreso, quindi. Libro che ha per sottotitolo: Così ho cambiato Facebook (per le Edizioni Minerva). Questa di cambiare Facebook è un po’ la sua mission: seminare civiltà, sintetizza lui. Depurare la rete dagli odiatori di professione e non, smussare gli eccessi, sterilizzare gli haters, cercare di ricondurre alla ragione i bulli della rete. Ma non usa il metodo Saviano ("Gli haters sono come la merda, concimano. Quando c’è un hater lo uso come concime, devi sfruttare la sua violenza a tuo favore",  ha più volte sottolineato lo scrittore). Bartoletti usa il suo metodo soft che descrisse qualche anno fa in una intervista a Carla Colledan sul magazine “Mangialibri”: "Racconto storie che sembrano favole e delle favole che sembrano storie mettendoci dentro i miei incontri, le mie esperienze, le emozioni. Racconto delle persone che ho conosciuto, degli eventi che ho avuto la fortuna di vivere, insomma tento di metterci dei contenuti e lo faccio a modo mio, con un po’ di garbo, di civiltà e un po’ di competenza. Devo dire che questo mio modo di essere è stato in buona parte la kryptonite nei confronti di persone che si approcciano in maniera sgarbata e aggressiva".

E’ lo stile Bartoletti. Avendo frequentato Fabio Fazio ai tempi della fondazione di quel gioiellino che fu ad inizio anni Novanta Quelli che… il calcio, verrebbe fin troppo facile dire che Bartoletti è un buonista. Anche per quei toni cardinalizi e da “volemose bene” che il giornalista sembra prediligere. Ma sarebbe una battuta gretta e scontata al tempo stesso, e lui potrebbe ribattere come fece Fazio all’ennesima geremiade di Salvini o di fronte a qualche calo di share: mi sono rotto le palle sentire parlare di buonismo in un paese pieno di rabbia e cattiveria. Mettiamola così: Bartoletti è un po’ come Vincenzo Mollica, grande conoscenza delle materie e dei mondi che trattano, ma, come il critico Rai non critica, lui non demolisce nessuno, non inciucia, non imbastisce retroscena. Decisamente dei difetti, questi ultimi, nel mondo contemporaneo della comunicazione. Aldo Grasso, parlando dei servizi di Mollica, coniò il termine “mollichismo” ("parla sempre bene di tutti"). Con Bartoletti non ha scritto di “bartolettismo”, ma sul Corsera non gli risparmiò pesanti giudizi negli anni passati a proposito di Mondiali ed Europei di calcio, mettendo sotto accusa la gestione di questi grandi avvenimenti da parte della Rai. “Puro cecchinaggio – replicò il baffuto di Forlì – ho sempre detestato il grasso superfluo…".

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Quindi la lettura di questo BarToletti 4 – un titolo che gioca con il cognome dell’autore e ricalca il titolo del bar in cui era ambientata dieci anni fa una trasmissione mattutina (Si Gira) dal Giro d’Italia condotta dal romagnolo – scorre liscia tra personaggi, circostanze, fatti della lunga carriera del nostro, tra studi e salotti televisivi, redazioni di giornali, festival e kermesse varie. Un mare sterminato di persone che compongono un mosaico che a volte sembra una dolorosa Spoon River (gli ultimi Gianni Mura ed Ezio Bosso), a volte una storia di particolari e curiosità insoliti  che inducono al sorriso. Scrive Vittorio Macioce nella prefazione (il libro è illustrato da tavole di Giorgio Serra, alias Matitaccia): "Qui ritrovi tutte le cose che gli umani hanno smarrito sulla Terra: ricordi di gioventù, figurine introvabili, canzoni dimenticate, storie che nella fretta hai smesso di raccontare…".

Così si apprende che sulla lapide di Aldo Biscardi a Larino c’è scritto: "Pregate non più di due o tre alla volta sennò non si capisce" che ci fa increspare le labbra ricordando uno dei motti del “rosso” del Processo; che Elton John, o qualcuno del suo entourage,  fece pitturare di rosa il camerino del Teatro della Fiera di Milano che l’avrebbe ospitato per Quelli che…, e che alla fine del programma il rocket man apprezzò una caratteristica di Bartoletti: "Lo sai che hai proprio dei bei baffi?"; che a Sofia Loren il Marino nazionale spacciò per una Vespa storica, quella su cui furono seduti Gregory Peck e Audrey Hepburn in Vacanze romane, una moto d’epoca esposta in una fiera a Singapore, manifestazione in cui l’attrice faceva un po’ da ambasciatrice del nostro paese. Il bello fu che Sofia ci volle salire su quella Vespa dicendo a Bartoletti: "Ma che bello! E’ il film della mia vita! Dai, mettiamola in moto: io faccio Audrey e tu fai Gregory, così ce ne andiamo in giro per tutta la fiera"; di Pecci che appena arrivò al Bologna disse con la faccia tosta dei giovani al massaggiatore che stava curando i muscoli del grande e “anziano” Bulgarelli: "Fai piano, perché è vecchio e potrebbe rompersi"; che dietro il prematuro ritiro dalle scene di Renato Carosone (non aveva neanche quarant’anni alla fine degli anni Cinquanta) ci fosse il timore del grande musicista di sentirsi démodé : "Temevo di trovarmi superato, avevo capito che nell’aria c’era una rivoluzione musicale: la sentivo nella voce dei Platters, ma dietro l’angolo c’era molto di più. Bill Haley aveva già inciso Rock around the clock e il mondo stava per essere sconvolto dal bacino roteante di Elvis. Temevo di trovarmi superato da un momento all’altro, di essere costretto ad inseguire le tendenze, proprio io che avevo anticipato e lanciato tante mode. Mi sono ritirato per questa ragione: per scendere dalla ribalta mentre ero ancora vivo…".

Due o tre volte Bartoletti alza la voce, si indigna, graffia. E strappa approvazioni e battimani, almeno a chi scrive. Quando parla del komandante Sarri, arruolato tra i grandi rivoluzionari (del calcio, e non solo), ora passato alla Juve padrona e per questo accusato di essere un “traditore”. Si scaglia perciò contro il fanatismo di certi ambienti: "Siamo arrivati al punto che ci sono tifoserie che 'cacciano' il loro allenatore vincente, ma che non vogliono quello che sta per arrivare: e allo stesso tempo non desiderano che una loro vecchia 'bandiera' vada in una squadra 'nemica'. Forse abbiamo perso un po’ tutti il senso delle proporzioni. E se riprendessimo ad amare la nostra squadra del cuore solo per i suoi colori e non per chi occasionalmente li indossa (o li abbandona)?". Si arrabbia ancora quando ricorda che cosa si scatenò sulla stampa italiana, poco più di trent’anni fa, in occasione del matrimonio di Diego Maradona con Claudia Villafane a Buenos Aires: "Una fucilazione alla schiena" scrisse sul Guerin Sportivo. Lui e Gianni Minà furono i soli giornalisti invitati alla cerimonia. Ma il boccone era troppo ghiotto, troppo trash, perché i giornali italiani non si buttassero a capofitto sull’evento, come si dice oggi, e non mandassero qualche inviato dopo aver scritto e riscritto che era una vicenda privata di Maradona.

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Allora i computer, tracimando, trasmisero giudizi sprezzanti e con tanto di puzza sotto il naso. Repubblica scrisse che "fu il matrimonio più kitsch, più megalomane e più cafone che si potesse immaginare" e che "al campione e alla sua ansia di rivalsa sociale tutto sembra concesso, anche questo sponsale arrogante, in realtà di sagra paesana, anche questo banchetto sprecone… resta immutato il malgusto, una certa volgarità di fondo e soprattutto la platealità con cui alla gente tutto questo è stato esibito e insieme negato". Abituati alla frugalità delle nozze di pleonastici principi e principesse, alla sobrietà francescana dei vip, non parve vero a qualcuno picchiare sui tasti e mettere alla gogna il sottoproletario ricco e drogato del pallone. Un giornalista del Corriere della Sera, scrive Bartoletti, si travestì da cameriere per assistere alla festa nuziale. "Perché ho ricordato tutto questo?..." si chiede l’autore. "Per ricordare a me stesso di appartenere ad una categoria non sempre votata alla correttezza e alla obiettività".

Ma è la “bomba a virologeria” a innescare l’ironia di Bartoletti e a riportarci all’attualità. "Confesso che, per mia colpa, - osserva nel post del 19 aprile 2020 - non sapevo quanto in Italia fosse diffusa la categoria dei virologi… Né potevo immaginare che questa importantissima missione concedesse ad alcuni tanto tempo libero per poter passare, a turno, ore e ore in televisione…Ormai li abbiamo imparato a conoscere come i Necco, i Giannini, i Castellotti, i Carino, i Vasino di Novantesimo minuto, ma soprattutto i Cazzaniga, i De Cesari, i Mosca, i Dardanello… del Processo di Biscardi…". Questi, i virologi, ci hanno detto tutto e il contrario di tutto. "E così da 'questo virus è poco più che un’influenza' siamo passati al coprifuoco inseguiti dagli elicotteri, dal 'guai a voi se mettete il naso fuori di casa' al 'liberi tutti' in pochi giorni". Per concludere: "Loro parlano parlano e noi, che purtroppo non sempre possiamo distinguere, alla fine abbiamo ancora più paura".

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Amaro, quasi angosciato, per un attimo il finale perché noi “anziani a rischio Covid” dobbiamo "prendere atto con serenità dei nostri anacronismi", considerato che "ci siamo sentiti dire che in caso di ricovero contemporaneo con persone più giovani saremmo stati abbattuti sulla porta di un ospedale". Tranquilli però, un sorriso di bimbi allo spaventapasseri della paura farà tornare la voglia di vivere, prima o poi getteremo via maschere e mascherine. Speriamo che abbia ragione Bartoletti. 



*GIANNI CERASUOLO (E’ nato nel 1948 a Pozzuoli - non ditegli: ah, il paese di Sofia Loren!. Ha lavorato all’Unità, a Repubblica e al Quotidiano della Calabria. Emigrante? Si. Strimpella il piano ma è certo di suonare la Polacca in la bemolle maggiore - Héroїque - di Chopin al prossimo scudetto del Napoli)

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