Baia, e il fico che cresce in discesa
foto e testo di TINA PANE *
C’è un bellissimo acquerello
dell’archeologo e architetto
Jean Claude Golvin che meglio di tante parole mostra la magnificenza di Baia
all’epoca romana. Qui, la meglio nobiltà di epoca tardo-repubblicana e poi
anche imperiale veniva in cerca d’ozio (qualcuno giura anche di stravizi)
perché Baia, oltre a essere inserita in un comprensorio di straordinaria
bellezza paesaggistica, aveva le acque termali, che tanto bene facevano al
corpo e alla mente dei romani affaticati dalla vita dell’urbe.
Baia, oggi frazione di Bacoli in provincia di Napoli, è una delle tante località dei Campi Flegrei (la terra che brucia, perché di origine vulcanica), un’area che oltre ai quartieri più occidentali di Napoli (Agnano e Bagnoli), interessa i comuni di Bacoli, Pozzuoli, Cuma, Quarto e Monte di Procida, il promontorio di Capo Miseno e la sua spiaggia, le isole di Procida e Ischia, i laghi d’Averno, di Lucrino e del Fusaro, la riserva naturale degli Astroni e l’oasi naturalistica del Monte Nuovo, un vulcano giovane nato nemmeno 500 anni fa: decisamente tanta roba, e tutta meritevole di attenzione.
Ma dicevamo di Baia.
Intorno alle sorgenti termali,
nel mezzo della macchia mediterranea e con davanti il mare (lo stesso dove Ulisse
seppellì il suo timoniere Baio, da cui il nome del sito), i Romani avevano
costruito un vero e proprio complesso residenziale, digradante lungo la parete
di un antico cratere, fatto di ville, camminamenti,
terrazze panoramiche ed edifici di svago. Forse oggi la chiameremmo
speculazione edilizia, ma all’epoca non pare fosse un reato.

La visita comincia dalla parte più alta del complesso, detta la Villa dell’Ambulatio perché dotata di un portico coperto, che aveva sei terrazze su cui si affacciavano le stanze residenziali e una grande sala da cui si poteva godere il grandioso panorama sul Vesuvio e Capri. Doveva essere molto lussuosa, perché mosaici e marmi decoravano i pavimenti di tutti gli ambienti.

Un po’ più giù nella zona
centrale vi è un altro edificio su quattro livelli, che oggi viene chiamato il
nucleo di Sosandra, dal nome della
statua collocata nella sala principale: anche qui pitture e pavimenti a mosaico,
e ai livelli superiori addirittura un teatro.

Continuando la discesa si incontrano il tempio di Mercurio (in realtà un frigidarium, una piscina d’acqua fredda contenuta in un ambiente circolare di ben 21 metri di diametro)
e il tempio di Venere –che oggi la
litoranea separa dal resto del complesso- un altro imponente edificio termale a pianta circolare
all’interno e ottagonale all’esterno, coperto da una volta a spicchi e
abbellito da raffinate decorazioni.

Proprio accanto al tempio di Mercurio, sotto una volta, cresce un fico selvatico che sfida tutte le leggi della natura. Pare che l’albero crescesse sopra la volta ma fu tagliato perchè le radici compromettevano la struttura, però le radici che ancora pendevano dal soffitto hanno continuato, ostinatamente, a vivere trasformandosi in rami.
Tutti questi edifici erano collegati tra loro da rampe o scalinate dipinte, mentre nelle zone inferiori grandi cortili con portici colonnati permettevano di raggiungere il mare, e di accogliere degnamente chi arrivava con le imbarcazioni.

Tuttavia una parte consistente della città di Baia si trova oggi sotto il livello del mare, a una profondità di circa 15 metri, dove sprofondò a partire dal III secolo d.C. a causa del fenomeno del bradisismo. Decorazioni e reperti, nonché alcune sculture recuperate dalla cosiddetta Atlantide Romana sono esposti al Museo dei Campi Flegrei, ospitato nel Castello Aragonese di Baia, edificato intorno ai resti della villa di Giulio Cesare.
Ci dicono gli studiosi che tutte queste ville col tempo cambiarono proprietà e destinazione d’uso, trasformandosi forse in alberghi al servizio dei frequentatori dei bagni termali che continuarono a funzionare come tali almeno fino al Medioevo. Tutta la zona è ancora ricca di acque termali e una visita a Baia (o a Cuma o a un’altra qualsiasi delle tante località dei Campi Flegrei) non può non concludersi con un assaggio dell’antica villeggiatura dei romani, per esempio passando qualche ora nello splendido complesso delle Stufe di Nerone, un posto dove si paga l’ingresso per lasciare tutto il mondo fuori.

Dai Romani ai viaggiatori del Grand Tour, in tanti hanno visitato e scritto di questi posti unici, davvero baciati dalla bellezza anche oggi che l’impatto edilizio e demografico fa sentire tutto il suo peso. Tra questi, su tutti, spicca la voce di Orazio che assicurava “Nessuna insenatura al mondo risplende più dell’amena Baia”. Ma forse Madame de Staël fece una sintesi migliore: “Dall’alto del lieve poggio che s’avanza sul mare formando il Capo Miseno, si vedono perfettamente il Vesuvio, il golfo di Napoli, le isole di cui è disseminato e la campagna che si distende da Napoli sino a Gaeta; insomma la regione dell’universo ove i vulcani, la storia, la poesia hanno lasciato più tracce”.
* TINA PANE (Napoli, 1962. Una laurea, un tesserino da pubblicista e un esodo incentivato da un lavoro per caso durato 30 anni. Ora libera: di camminare, fotografare, programmare viaggi anche brevissimi e vicini, scrivere di cose belle e di memorie)
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