Apuane, in bici nel bianco splendore

di FABIO ZANCHI*

“Come avviene tra gli indigeni della Nuova Guinea, il vero scopo del matrimonio non è tanto quello di ottenere una moglie, quanto quello di assicurarsi un cognato”. Ho sempre pensato che Claude Lévi-Strauss, l’antropologo, in fondo avesse ragione. Di prove ne ho avute parecchie.

Suppergiù trent’anni e trenta chili fa, per esempio, è stato proprio grazie a mio cognato Pietro che ho scoperto la vera bellezza della Versilia. Il mare? No, vi sbagliate proprio. La vera bellezza della Versilia sono le montagne. Mettetevi spalle al Tirreno e ve ne accorgerete. Là, sullo sfondo, ci sono le Apuane: una cima più bella dell’altra. Con una particolarità tra le tante: sembrano sempre innevate, anche d’estate, grazie al marmo. Il marmo di Carrara, una delle meraviglie di questo mondo.

Con Pietro quelle montagne le ho percorse tutte, in bicicletta e a piedi. Più che altro a piedi, a dire il vero. E ho scoperto, insieme a panorami e paesaggi straordinari, che la Toscana è una terra molto particolare, dove niente viene chiamato e conosciuto con il suo nome. A cominciare da quelle montagne: teoricamente saremmo sull’Appennino. E invece no: quelle le chiamano Alpi. Le Apuane, per l’appunto. 

image001jpg

(foto di Pietro Ichino)

Tecnicamente, in quegli anni, funzionava così. Nel pieno dell’estate partivamo con i bambini e raggiungevamo Vittoria Apuana, l’ultimo paesotto prima di Forte dei Marmi, appena superata la Linea Gotica. Lì, a casa sua, ci aspettava Pietro, che nel frattempo si era già ben allenato andando su e giù dalle Apuane con una delle sue superbiciclette: da corsa, city bike, mountain bike. Sapendo che io tendenzialmente odio la vita da spiaggia (troppo sole, troppa sabbia, troppi unguenti e prodotti solari, troppi attaccabottoni) l’ultima sua raccomandazione, in genere, era: “Porta la bici, non dimenticare”. In effetti, una bici l’avevo anch’io. Anche sufficientemente dotata di cambi e ingranaggi da salita. Erano le gambe, il problema. Infatti io arrivavo a Vittoria Apuana dopo aver passato un anno intero seduto in redazione, da culo di pietra quale ero. Lui invece, il perfido cognato, per tutto l’anno dedicava ogni suo tempo libero a coltivare la propria passione ciclistica, soprattutto da quelle parti. In una vita di esplorazioni, quelle cime le conosceva perfettamente: non c’era angolo che non avesse raggiunto e raccontato in modo minuzioso su quel Gitario (*) che ora ha trasformato in una preziosa guida online a disposizione di chiunque voglia godersi escursioni ciclistiche su quelle montagne.

La sera Pietro annunciava la tappa del giorno dopo. Sveglia all’alba, partenza con il fresco e poi via. Lui bello allenato, io, incosciente e temerario, con i muscoli legati e arrugginiti. Talvolta si aggregavano alcuni dei nipoti: tutti con un gran fiato, nessun problema alle lunghe leve, trionfanti nella loro esuberante potenza fisica, quella dell’adolescenza. Ricordo la volta che siamo partiti per le cave di Michelangelo, bellissime e straordinarie: sono quelle che danno alle Apuane quel biancore così particolare, quasi da alta montagna. L’attacco, diciamo così, è da Carrara. Dunque, da Vittoria Apuana a Carrara, sull’Aurelia, tutta in piano, è solo riscaldamento. Venti chilometri di pura illusione per chi, come me, era passato dalla scrivania al sellino della bici. Il bello, infatti, è venuto dopo. Il Gitario la racconta così: “Da Carrara

·        salita a Campocecina – m. 1100 s.l.m. circa - e discesa (tutto asfalto)

·        salita a Colonnata, da lì al Vergheto – m. 1000 circa - e discesa a Forno, frazione di Massa (parte asfalto, parte sterrata)

Da Massa, salita a Antona e Passo del Vestito – m. 1000, tutto asfalto, con vista su due gallerie consecutive –, da lì si può scendere ad Arni – m. 900 – e risalire al passo del Cipollaio, tutto su asfalto, oppure salire alla cava del Fondone – m. 1150, tutto su sterrrata,e da lì scendere al Cipollaio – m. 700.

Dal Cipollaio si scende a Seravezza, da dove si può salire ad Azzano – m. 500 - e da lì alla Cava di Michelangelo (prima asfalto, poi sterrata).

Tornati ad Azzano, si prende per Minazzana e Basati – m. 500 -, per scendere a Ruosina – m. 100 – tutto su asfalto.

Da Ruosina si sale a Cardoso – m. 250 – e da lì a Volegno e Pruno (m. 470), con vista mozzafiato sul Monte Forato, il Procinto e la Pania della Croce.

Poi si scende di nuovo a Seravezza, da lì a Strettoia, da dove si prende la strada del Venturello (prima asfalto poi sterrata), da dove si sale al Folgorito – m. 900 – (due chilometri di asfalto, poi tre di sterrata e mulattiera pedalabile: sesta e settima foto, di Andrea e me). Da qui si scende al Pasquilio – m. 800 (tre chilometri di sterrata)- e poi a Cerreto – m. 400 -, Sant’Eustachio – m. 300 – e Montignoso.

Da Montignoso si può scendere al Forte dei Marmi costeggiando l’argine del Cinquale: quinta foto.”

image002jpg

(foto di Pietro Ichino)

Ecco, quel che il Gitario non dice è la fatica maledetta: mentre Pietro pedalava leggero, ricordo di aver fatto chilometri di strada a piedi, scendendo dalla bici perché non ce la facevo a pedalare in salita. Ma ricordo anche la poesia: quelli sono luoghi di una bellezza strepitosa. A ogni curva, a ogni tornante, la vista dall’alto di un mare azzurrissimo. Le sagome delle isole: il Tino, persino, là in fondo, il “dito” della Corsica. Uno spettacolo.

E la cava. Un imponente monumento naturale al lavoro massacrante dell’uomo. Un bianco mai visto, neppure sui ghiacciai della Val d’Aosta. Sulla strada che ci ha portato alla cava, tutti i segni di un lavoro che si è evoluto nel tempo. I buchi nel marmo per i perni che permettevano, nel corso della lizzatura, di far scendere blocchi di marmo pesanti tonnellate, dal monte al piano. E tutt’intorno, nello sfasciume del marmo, miliardi di sfaccettature riflettenti la luce del sole, come su un ghiacciaio, più che su un ghiacciaio. È lì che ho scoperto di essere pelato: la sera, quando siamo tornati da quella gita lunghissima e memorabile, dieci ore di sudore e fatica, mi sono guardato allo specchio e ho capito perché sentivo tutto quel caldo in testa. D’altra parte, quelli erano ancora tempi in cui si andava in bicicletta affrontando spericolate discese senza neppure il casco. Da veri incoscienti. Poi sono arrivati i caschi, ma io ho smesso di andare in bicicletta. Troppa fatica.

D’altra parte, il mio l’avevo fatto. Con Pietro come guida, le Apuane le ho fatte tutte o quasi. Il monte Folgorito, l’Altissimo, il Pasquilio, Cerreto, il Monte Forato… I luoghi della Resistenza: la Linea Gotica, Sant’Anna di Stazzema, dove ci portava, ogni 12 agosto nel giorno anniversario della strage nazista, Luciano, il padre di Pietro.

image003jpg

(foto di Pietro Ichino)

Questa parte della Toscana è particolarmente ricca, e non solo per i tesori naturali che offre in modo quasi sfrontato. Il fatto è che qui convergono Lunigiana, Spezzino, Garfagnana e Versilia. Incroci a tal punto complessi non potevano che dar luogo a una realtà multiforme, che impone una certa varietà anche nel linguaggio. Per esempio, da qualche tempo ho preso casa in quel di Montignoso, a poca distanza da Vittoria Apuana. Ebbene, nel giro di tre chilometri, non di più, Montignoso cambia nome altre tre volte: si chiama Prato, poi Capanne, poi Piazza. Misteri della toponomastica locale. E, lo dico per gli appassionati, la zona è già pronta a prendere un altro nome, quello di Lunezia. Secondo il progetto geopolitico elaborato da un’associazione nata ad hoc, dovrebbe sorgere una regione frutto dell’unione delle province di La Spezia, Massa, Carrara, Garfagnana di Lucca, Piacenza, Parma, Reggio Emilia, parte di Cremona e Mantova. Una fetta di territorio, per cui Mantova avrebbe finalmente il proprio sbocco al mare in Montignoso.

IMG-20200704-WA0001jpg

(Conca per la produzione del lardo di Montignoso       foto di Fabio Zanchi) 

Analoga ricchezza e varietà lessicale si trova, com’è ovvio, in tavola. Una prova? A Piazza (Montignoso) c’è il mio amico Massimo Bacci. Insieme a suo padre Vinicio porta avanti una macelleria, quella del nonno, da visitare assolutamente. Massimo produce il lardo di Montignoso, a mio parere molto più gustoso di quello, in voga tra i turisti, di Colonnata. Nel retro della sua bottega Massimo ha varie conche di marmo, la più antica è addirittura del 1896. In quelle, con l’aggiunta di erbe e spezie che sa solo lui, stagiona un lardo delicatissimo, vera prelibatezza. Fra le altre sue specialità, la mortadella nostrale (che per noi umani è il salame casalingo), la scamerita (nome locale della coppa), la soppressata (che stranamente non cambia nome rispetto alla vulgata generale). Un altro prodotto straordinario è il salume che i cavatori si portavano per nutrirsi al lavoro. È il biroldo, una specie di sanguinaccio, che qui a Montignoso si chiama così, ma che a Carrara è conosciuto con il nome di “mallegato” e che in altre parti della Toscana chiamano “buristo”.

Se vi volete divertire, andate dai Bacci e seguite Vinicio mentre taglia ogni tipo di carne: intanto che fa andare il coltello vi racconterà tutto di quelle costate, di quei tagli, di quei filetti. Un pezzo di teatro - in cui si mischiano saper fare, tradizione, gusto e amore per il proprio mestiere - da far venire l’acquolina in bocca.


(*) Il Gitario raccoglie la descrizione di 120 escursioni sulle Apuane. Ad esse verrà dedicato un sito autonomo, in preparazione proprio in queste settimane.


*FABIO ZANCHI (Da piccolo guidava trattori e mietitrebbie. Da giornalista, prima all’Unità e poi a Repubblica, ha guidato qualche redazione. Per non annoiarsi si è anche inventato, con Nando dalla Chiesa e altri spericolati, il Controfestival di Sanremo, a Mantova

clicca qui per mettere un like sulla nostra pagina Facebook
clicca qui per rilanciare i nostri racconti su Twitter
clicca qui per consultarci su Linkedin
clicca qui per guardarci su Instagram